Secondo le stime “degli esperti dell’Eurosistema”, la crescita del Pil nel 2023, nel complesso dell’area, “è stata rivista al ribasso di quasi mezzo punto, allo 0,5%” mentre l’inflazione è stata rivista al rialzo, “al 6,3% nel 2023 e al 3,4 nel 2024, per via di una più diffusa e persistente trasmissione ai prezzi al consumo delle pressioni derivanti dai rincari delle materie prime energetiche e dei beni intermedi, e di sensibili incrementi salariali (dell’ordine del 5% nel 2022 e nel 2023)”. Incrementi salariali? Non è un brano tratto da un racconto di fantascienza, ma è il caso di precisare che Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, si riferiva qui all’ambito della zona euro e non all’Italia. Nonostante le stime degli organismi europei sull’inflazione nel 2023 – ha spiegato rassicurante – “non vi sono al momento segnali di una intensa spirale tra prezzi e salari. La dinamica retributiva si è lievemente accentuata da ottobre, anche per effetto dell’incremento del salario minimo in alcuni Paesi, tra cui la Germania, i Paesi Bassi e, per l’indicizzazione automatica ai prezzi, in Francia, nonché per l’operare di meccanismi di indicizzazione su tutti i salari in altri Paesi, in particolare in Belgio (qui avete appena letto una serie di notizie che in Italia sarebbero classificate come bestemmie, ndr). Nel complesso dell’area la quota di retribuzioni indicizzate all’inflazione resta contenuta, un fattore che attenua il rischio di pericolosi avvitamenti tra prezzi e salari. In diversi Paesi, tuttavia, sembrano esservi, nell’ambito delle negoziazioni relative ai rinnovi contrattuali, richieste di aumenti particolarmente elevati, anche per recuperare le perdite di potere d’acquisto per gli aumenti dei prezzi connessi con lo shock energetico”. Ohibò, “in diversi Paesi” – ha notato il governatore – i sindacati pretendono di recuperare il potere di acquisto falcidiato dall’inflazione importata attraverso i prezzi dell’energia. Che roba, contessa!
Wolfgang Munchau, uno dei più autorevoli commentatori europei, non certo sospettabile di simpatie di sinistra, sul suo sito “eurointelligence”, ha ricordato recentemente che “è un’idea sbagliata comune che quando l’inflazione è bassa, i prezzi scendono. Quello che succede è che aumentano solo di meno. Ciò che è insostenibile oggi, sarà ancora più insostenibile domani a meno che i redditi non si mettano in pari”. Non è chiarissimo, invece, leggendo il testo integrale del suo discorso, cosa possa giustificare le preoccupazioni in materia salariale di Visco, almeno per quanto riguarda l’Italia. Preoccupazioni già espresse nelle sue “considerazioni finali”, l’anno scorso, quando denunciò il “rischio di un aumento delle aspettative d’inflazione oltre l’obiettivo di medio termine e dell’avvio di una rincorsa tra prezzi e salari”.
Va ricordato (ce ne siamo occupati per esempio qui) che l’inflazione colpisce duro soprattutto sulla borsa della spesa delle famiglie più povere (primo decile), sulle quali pesa per il 15%, mentre per le famiglie più ricche (decimo decile) si attesta al 6,8%. Salario minimo e aumenti salariali adeguati, oltre che una riduzione del larghissimo bacino dei contratti precari e del finto lavoro autonomo, potrebbero essere una strada per alleviare le sofferenze degli strati di popolazione maggiormente colpiti dalla crisi e irrobustire la fragilissima crescita economica, necessaria anche per riavvicinare i rigidi parametri europei su deficit e debito pubblico. Ma nel suo intervento dello scorso 23 gennaio, al convegno dell’Ambrosetti club (trascrizione integrale reperibile qui), Visco ha riproposto la sua ben nota visione: una sorta di grigio fatalismo che obbedisce alla dogmatica idea draghiana del “pilota automatico”; che individua come una minaccia l’immaginaria “spirale prezzi-salari”, come una necessità la contrazione del debito pubblico, altrimenti i tassi di interesse dovranno essere ulteriormente rialzati. E qui si torna alla politica monetaria come fattore regolatore superiore rispetto alle scelte della politica, quella che un tempo si immaginava determinata dai processi democratici.
Queste considerazioni sui limiti imposti allo spazio di manovra in senso anticiclico della spesa pubblica comportano l’indicazione di interventi solo parziali di contrasto agli aumenti dei prezzi energetici (limitati nel tempo e nella platea di beneficiari). Confinata nel campo dei semplici auspici la proiezione di un aumento degli investimenti. Auspici, sì, perché Visco ha spiegato che gli investimenti devono essere “soprattutto privati”, campa cavallo. Anche perché lo stesso banchiere centrale ha puntato il dito sulla struttura del sistema produttivo nazionale, nel quale “rimane estremamente elevato il numero di microimprese con modesti livelli di produttività, la cui crescita è spesso ostacolata da pratiche gestionali carenti”. Si tratta – ha precisato – di “uno dei principali fattori di debolezza del nostro Paese”.
Del tutto trascurabile, invece, per il governatore, la preoccupazione per il “campanello d’allarme” della contrazione della crescita nell’ultimo trimestre del 2022, come lo ha definito un giornale non certo barricadero come il quotidiano dei vescovi “Avvenire”. “Nello scenario di base presentato nel Bollettino economico (di Bankitalia, ndr) si è ipotizzato – ha ricordato Visco – che le tensioni associate alla guerra si mantengano ancora elevate nei primi mesi di quest’anno, per ridursi gradualmente lungo l’orizzonte di previsione. Nel 2023 il Pil rallenterebbe nettamente, allo 0,6%; la crescita tornerebbe poi a rafforzarsi nel prossimo biennio, grazie all’accelerazione delle esportazioni e della domanda interna, che beneficerebbe della diminuzione delle pressioni inflazionistiche e dell’incertezza”.
Come si vede, l’ottimismo qui poggia tutto sul miglioramento delle condizioni “esterne”, quelle che meno la politica è in grado di influenzare: incertezza e inflazione, importate dall’esterno, potrebbero ridursi, ma anche no, dal momento che dipendono in gran parte dalla guerra, dalle sanzioni e dalle contrapposizioni internazionali, che stanno ridisegnando i mercati globali e i rapporti di forza fra il campo occidentale e il resto del mondo.
Sarà interessante capire se nel dibattito politico italiano ed europeo troverà spazio la voce di chi pensa che lo spazio per un’azione di governo politico della crisi, in controtendenza con i fattori dominanti esterni, ci sia. Di chi è convinto che almeno sulle partite più controllabili dagli esecutivi e dagli attori socioeconomici – come salari, investimenti pubblici, politica industriale – ci sia un certo margine di intervento per contrastare la crisi e il suo “naturale” impatto sulle fasce di popolazione economicamente più deboli. Per ora, non pare davvero che questi temi si stiano facendo largo in parlamento e nel mondo dell’informazione.