Se da giornalista avessi avuto la “scheda di sintesi” dei colloqui in una sezione da 41/bis – naturalmente di un carcere di massima sicurezza – tra mafiosi, terroristi e politici, e l’avessi pubblicata, avrei con orgoglio rivendicato il mio scoop. Ma state certi che mi avrebbero perseguito, indagato, forse arrestato. Nella vicenda Cospito/governo della destra, abbiamo che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sostiene che quelle notizie divulgate in parlamento erano riservate. Però il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, sostiene che erano notizie “a divulgazione limitata” ma non “coperte da segreto”.
Che brutta aria tira nel Paese! I vecchi e nuovi arnesi di una destra-destra, cancellando con un doppio colpo di spugna la storia terribile della lotta alla mafia e al terrorismo, che ha visto la sinistra in prima linea, e dimenticandosi il rispetto dovuto alle istituzioni, stanno perseguendo un modello di “Paese forcaiolo senza garanzie democratiche”. Oggi servirebbe davvero una riflessione collettiva sullo stato dell’arte della lotta alla mafia. Perché non sfruttare l’occasione del dibattito parlamentare sulla costituzione della commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno mafioso in Italia, per promuovere una sorta di “stati generali” sulla mafia? Magistrati, forze dell’ordine, reparti investigativi di eccellenza, apparati di intelligence potrebbero esprimere le loro analisi e i loro punti di vista sull’attualità della mafia. Esiste ancora Cosa nostra? Come si è riorganizzata? Quali sono le sue attività principali? E lo stesso discorso vale per la ’ndrangheta, la camorra, le mafie straniere.
Solo che, in questo contesto, dovremmo discutere anche sugli strumenti efficaci di contrasto alle mafie. C’era ancora l’odore di morte, di sangue ed esplosivo a Capaci e in via D’Amelio quando il 41/bis fu applicato per la prima volta ai detenuti mafiosi. Ma oggi che le mafie non uccidono più, investono in Borsa e, dal settore immobiliare, sono passati alle nuove fonti energetiche, al riciclaggio nel gioco d’azzardo, non servirebbero piuttosto misure pervasive per risalire alle attività criminali, o il carcere “duro” per i “colletti bianchi” degli industriali (mafiosi) e dei riciclatori?
Chi ricorda la storia dei turbolenti anni Settanta, Ottanta e Novanta, non potrà non ricordare le immagini (ricordo le prime pagine di “Lotta continua”) dei detenuti sui tetti, i padiglioni incendiati, le rivolte nelle carceri. Allora, per fronteggiare la situazione, si applicava l’articolo 90 dell’Ordinamento penitenziario, che consentiva ai detenuti di quel carcere o padiglione, che avevano protestato distruggendo letti e materassi, di subire delle limitazioni: per esempio di non poter fare acquisti in carcere. Poi, con l’arrivo delle “teste calde” alla Vallanzasca, fu introdotta l’applicazione delle limitazioni non più ai detenuti di quelle celle, padiglioni che avevano protestato, ma ai singoli, alla persona. Nasce così il 41/bis, in seguito applicato ai detenuti mafiosi, all’indomani delle stragi Falcone e Borsellino.
Trent’anni e passa dopo, è legittimo interrogarsi sulla attualità di questo strumento? In quegli anni di attacco eversivo allo Stato, da parte della mafia, i “prigionieri” di quello Stato e di quell’esercito “nemico” che venivano catturati, non dovevano impartire le loro direttive all’esterno, a quell’esercito che combatteva ancora contro la legalità e lo Stato. Finivano in carcere i Bagarella, i Graviano, e poi gli stessi Totò Riina e Bernardo Provenzano. Erano i capi che non si pentivano. Ed era importante che a loro fosse impedito di impartire ordini all’esterno.
Ma oggi, trent’anni dopo, cos’è diventata Cosa nostra? Trent’anni dopo, possiamo dire che ai detenuti al 41/bis siamo riusciti a impedire di comunicare all’esterno delle carceri? Se solo pensiamo ai colloqui con gli avvocati e – non volendo criminalizzare i legali – a quante opportunità hanno avuto i boss di comunicare con i loro affiliati. Oggi il dibattito, nervoso e a sprazzi privo di razionalità, ci propone una interpretazione del 41/bis come se fosse una pena aggiuntiva, in una logica punitiva e vendicativa. Legittima quando scorreva il sangue dei servitori dello Stato. Se dev’essere una battaglia di principio, per cui abolire o modificare il 41/bis significa dare un segnale di resa alla violenza mafiosa, abbiamo perso in partenza. Lo Stato deve essere lungimirante, non può consentire l’applicazione di una misura di sicurezza interna alle carceri come una pena afflittiva.
Cosa c’entra la battaglia di Alfredo Cospito con gli intrecci tra terrorismo, mafia e politica, come lascia intendere persino “Il Fatto”? Assolutamente nulla. Cospito rischia la vita e in Italia non esiste la pena di morte. Uno Stato democratico deve porsi il problema della compatibilità della detenzione al 41/bis e la salute del detenuto. I medici del carcere sardo avevano lanciato l’allarme che Cospito rischiava, rischia, l’infarto se non viene curato e non riprende ad alimentarsi correttamente. Forse il governo Meloni ha bisogno di un martire o di un “eroe negativo” per riconquistare una popolarità che in, questi cento giorni, ha iniziato a perdere?