Ieri sera, primo febbraio, nella nunziatura di Kinshasa, in Congo, incontrando le vittime della violenza, Francesco ha detto: “Per dire davvero no alla violenza non basta evitare atti violenti; occorre estirpare le radici della violenza: penso all’avidità, all’invidia e, soprattutto, al rancore. Mentre mi inchino con rispetto davanti alla sofferenza patita da tanti, vorrei chiedere a tutti di comportarsi come ci avete suggerito voi, testimoni coraggiosi, che avete il coraggio di disarmare il cuore. Lo chiedo a tutti in nome di Gesù, che ha perdonato chi gli ha trafitto i polsi e i piedi con i chiodi, attaccandolo a una croce: vi prego di disarmare il cuore. Ciò non vuol dire smettere di indignarsi di fronte al male e non denunciarlo, questo è doveroso! Nemmeno significa impunità e condono delle atrocità, andando avanti come se nulla fosse. Quello che ci è chiesto, in nome della pace, in nome del Dio della pace, è smilitarizzare il cuore: togliere il veleno, rigettare l’astio, disinnescare l’avidità, cancellare il risentimento; dire no a tutto ciò sembra rendere deboli, ma in realtà rende liberi, perché dà pace. Sì, la pace nasce dai cuori, da cuori liberi dal rancore”.
Probabilmente solo così si capisce perché in queste ore Francesco sia in Congo, convinto che il disordine mondiale sia globale e richieda una diversa, nuova globalizzazione, costruita dal basso, tra i popoli del Nord e del Sud del mondo. È quanto è emerso anche oggi, nello stadio di Kinshasa, in un frastuono incontenibile, quando ha incontrato i giovani e i catechisti della Chiesa congolese. Impietose, le immagini hanno ripreso più volte i notabili del Congo sulle poltrone spaziose della tribuna d’onore. Qualcosa che chi conosce gli stadi nostrani avrà visto senza sorprendersi. La stessa struttura degli stadi, dei settori “popolari” e di quelli “vip” rimanda un’idea di società, una cultura “globale”.
Ma i protagonisti questa mattina non sono stati gli ospiti delle tribune d’onore, ma la folla che li ha come travolti nel loro rapporto diretto ed evidente con l’ospite illustre, il “papa di Roma”. E lui –come sovente accade in queste circostanze che lo mettono a contatto con i giovani – ha saputo cercare il rapporto diretto con queste migliaia di giovani parlando delle mani: le mani che ognuno di noi ha, ma che mai sono uguali le une alle altre, facendo di ognuno un unicum irripetibile. È stato il primo elemento forte della sua omelia, che ha fatto di ciascuno un protagonista della storia, e quindi della riconciliazione possibile, nel rispetto delle diversità. Soprattutto le donne sono diventate protagoniste in un’assemblea che ha ricordato e fatto presente al papa il sistema patriarcale, che limita i diritti e gli stessi spazi accessibili alle donne africane.
Quindi Francesco ha invitato tutti a prendersi per mano, come a costruire una sola Chiesa, un solo popolo, senza tribalismi e barriere etniche. Poi tutti, insieme, hanno cantato la stessa canzone, secondo un rituale diffuso nella Chiesa congolese. Le canzoni e i balli popolari diffusi in Africa sono un lascito tradizionale, teso a stabilire una connessione con gli antenati, con chi non c’è più, ma che ha cantato e danzato nello stesso identico modo nel corso dei tempi passati.
Finito il canto comune, il papa ha chiesto alla folla come si sconfigga il cancro della corruzione: ci sono tante persone capaci ma corrotte. “Basta corruzione” – ha urlato nel microfono, distanziandosi dal cliché terzomondista per cui le colpe dei mali d’Africa sarebbero tutte e solo straniere. Quelle colpe ci sono, certamente, ma non cancellano quelle dei leader locali. Intanto il frastuono è diventato incontrollabile, l’invito ad abbattere la corruzione ha esaltato la folla, evidentemente esausta della corruzione dei politici locali, come di quelli di tanti altri Paesi del mondo. E un commentatore ha capito che, mentre il papa parlava di corruzione, molti fedeli dicevano al presidente: “Ascolta con attenzione”. Davanti a un entusiasmo incontenibile, il papa ha poi indicato la forza del perdono; per costruire un futuro occorre dare e ricevere perdono. E così è arrivata la richiesta di un minuto di silenzio, pensando ciascuno a chi ci ha offeso: “Diamogli il perdono” – ha chiesto il papa.
L’incontro odierno non può far dimenticare quello di ieri sera con le vittime della violenza, quando Francesco ha denunciato che i luoghi di tanti massacri congolesi – come Bunia, Beni-Butembo, Goma, Masisi, Rutshuru, Uvira – quasi mai vengono citati nei media mondiali. È andata così anche in questa circostanza, con ogni evidenza; ma la globalizzazione dal basso che Francesco è venuto a cercare di costruire dal Congo è il modo più efficace per ricordare anche i luoghi dei massacri in Ucraina, a un anno dall’inizio del terribile conflitto. A una globalizzazione che evidentemente non funziona, Francesco risponde con l’altra globalizzazione, quella dal basso. Non ha senso sperare in continenti-fortezza, assediati dalla miseria, dai nuovi imperialismi e dai tribalismi senza speranza. Occorre andare verso una globalizzazione multipolare e costruire un nuovo ordine mondiale, per tutti. È questa la scommessa pluralista di Bergoglio. Ed ecco perché non può temere di andare in Sud Sudan, da domani, a constatare come il tribalismo miliziano abbia fatto fallire questa scommessa “cristiana”, secessionista da un altro gigante malato, il Sudan.