Il 27 gennaio si ricorda la barbarie, la disumanità, il progetto di sterminare gli ebrei di Europa. Questa è la memoria. In questo giorno, tuttavia, non si fa mai la storia del ventennio nazifascista e di ciò che lo precedette. Non si dice perché ciò accadde, non si esaminano le cause politiche, sociali, culturali. Fascismo e nazismo non vengono scandagliati nella loro genesi; e non si dice che in Italia e in Germania, come in tante altre parti di Europa, ebbero un consenso di massa, riuscirono a mobilitare milioni di persone anche tramite l’odio per gli ebrei e l’idea del complotto giudaico-massonico, in nome del popolo contro le caste, i poteri forti e la cosiddetta plutocrazia.
Assistiamo a film e documentari in cui si mostra un orrore che sembra qualcosa di venuto da fuori, come un virus, una fatalità e, tutto sommato, una parentesi causata da due folli che nacquero, più o meno nello stesso momento, in Italia e in Germania. Certo, si cita la famosa frase di Primo Levi, quella per cui tutto ciò è successo, e quindi potrebbe succedere ancora: ma in realtà non ci crede quasi nessuno, perché ormai nessuno conosce più la storia di quell’inizio Novecento per molti versi simile a quella dell’inizio del presente secolo.
L’essere umano è libero di rifiutare il dolore provocato dall’alienazione costitutiva del soggetto, che deve sempre e comunque vedersi nell’Altro per giungere all’autocoscienza. È il paradosso di essere soggetti all’Altro, e all’imposizione di un’autorità per essere liberi. L’individuo può allora non voler essere subiectum, cioè soggetto all’Altro, può rifiutare di dipendere da un rapporto di elaborazione collettiva del mondo assieme con gli altri. Può non voler sentire quella dipendenza, e può farlo in nome della libertà, che nasce però grazie a quella stessa dipendenza. Sta tutto qui il paradossale circolo vizioso-virtuoso dell’esistenza umana: si è liberi perché non esiste una spiegazione del mondo data una volta per tutte, tanto da dovere essere elaborata in modo non perfetto e senza fine – per approssimazione e tentativi temporanei –, e in nome di quella stessa libertà si possono non rispettare le regole necessarie a elaborare simbolicamente il mondo, e a dare un senso all’incerta presenza in esso dell’essere umano.
Dunque, la libertà può essere rifiuto delle regole, della mediazione, della cultura, del rispetto degli altri, della comprensione e dell’idea stessa di tentativo implicita in tutti questi elementi; tentativo sempre imperfetto, da vedere sempre come una soluzione approssimata, una comprensione mai definitiva. E l’imperfezione, l’idea del tentativo e della comprensione temporanea del mondo che può essere messa in discussione – per un nuovo tentativo che sembrerà in un dato momento più avanzato di quello precedente –, genera insicurezza, angoscia, tiene in tensione, non appaga, non tranquillizza.
Allora, in nome della sicurezza, del regime perfetto, che assegni una volta per tutte e per tutti i comportamenti da mettere in atto, certifichi l’idea di giustizia definitiva e stabilisca le connessioni fra cose, si può rifiutare ciò che caratterizza l’umano: l’esaltante sfida della libertà, il calore, la felicità dell’elaborazione collettiva del mondo. Si può non accedere alla possibilità di esprimere la propria diversità individuale come apporto a quella elaborazione. Si può decidere di non difendere il proprio io più intimo, la propria persona, quella persona che è sacra proprio perché nulla è deciso una volta per tutte, tanto che ogni individuo vale, non è un numero già incasellato da chi ha stabilito il regime perfetto.
La storia dimostra che si può rinunciare alla bellezza del tentativo, dell’esaltante cimento collettivo volto all’interpretazione del mistero dell’umano e del suo essere al mondo, in favore dell’illusione della perfezione, della tranquillità, della sicurezza, di un’idea di libertà paradossale, cioè di una libertà che rinuncia a se stessa. Anche così, e soprattutto così, è possibile spiegare il consenso di massa che ebbero i fascismi nel secolo scorso.
I fascismi infatti non ottengono consenso in quanto autoritari, cioè come portatori di ordine, bensì per una loro funzione liberatoria, liberante dalla “fatica del concetto” (per dirla con Hegel), dalla continua oscillazione che comporta la dialettica tra il concreto e l’astratto, tra l’ordine e la libertà, tra l’individuale e il collettivo. Il fascismo libera e unisce: libera dalla fatica del dover elaborare l’incompiutezza di essere umani, e unisce l’individuo alla massa nell’adorazione del capo che permette quel tipo di liberazione. È un’unione che si compie senza bisogno del pensiero razionale, nell’intuizione di essere “comunità di popolo” che non deve più faticare nell’oscillazione continua fra i poli dell’esistenza umana.
Saremmo dunque in presenza di un popolo i cui individui si sentono non più divisi al proprio interno, appartenendo così a una comunità, unificata a sua volta nel nome del capo, senza doversi dividere tra società civile e Stato, senza la necessità di essere riconosciuti dallo Stato tramite le sue istituzioni: dalla scuola ai servizi sociali, dai partiti al parlamento, dai sindacati alle associazioni di categoria. Tutto si fa Stato e capo senza mediazioni, conflitti, dibattiti, compromessi, lotta politica e conflitto sociale.
Così si poté aderire ai fascismi, con l’entusiasmo di sentirsi infine liberati dalle difficoltà e dalle fatiche della cultura, della formazione, dell’impegno politico e civico, del conflitto sociale e persino della necessità di sottostare all’autorità dei maestri. Perché quando l’unità si raggiunge per intuizione mistica, personificata dal capo e facilmente apprendibile grazie al suo carisma, non servono più maestri, insegnanti, poeti, filosofi, artisti, musicisti, dirigenti politici, sacerdoti, sindacalisti; non serve faticare per imparare a usare gli strumenti della mediazione simbolica, per accedere alla cultura come sforzo mai definitivamente compiuto.
Non dobbiamo allora pensare i fascismi solo come regimi iper-autoritari, perché la loro promessa è quella di eliminare proprio quelle autorità che limitano gli individui con la “pretesa” di volere dare loro una formazione: formazione necessaria a fronte della loro indeterminazione e incompletezza ontologica. Infatti, i fascismi sono spiccatamente anti-intellettualistici, perché non possono sopportare il rovello dell’indeterminazione, del tragico insito nell’esistenza umana. Quello che propongono è la totalità compiuta, ottenuta per sentimento, per intuizione immediata della comunità nazionale, in cui tutto viene finalmente svelato senza mediazione, cultura, pensiero.
Per concludere, quindi: il fascismo non riempie i vuoti della sinistra, come sentiamo ripetere spesso nel dibattitto politico oggi corrente. Il fascismo è una possibilità della vicenda umana. È parte del nostro essere, della nostra costituzione ontologica, della fatica che si fa a essere liberi e che si può rifiutare (oltretutto, paradossalmente, proprio in nome della libertà stessa). Come il male, in genere, non è un virus che venga da fuori ma è connaturato alla nostra libertà di umani, così il fascismo nello specifico non è una parentesi, un’aberrazione da imputare alle mancanze di altri, alla follia o alla cattiveria di alcuni che sfruttano un vuoto. Sprecare tempo nell’interpretare il fascismo, o il populismo di destra, come risultato degli errori della sinistra è inutile. Occorre indagare a fondo la loro natura, a partire da quanto essi possano essere in apparenza liberatori dalle fatiche del vivere e dalla complessità dell’umano.