L’invito al dialogo, alla pace e all’unità, e l’appello alla “tregua nazionale” con cui martedì 24 gennaio la presidente peruviana, Dina Boluarte, ha concluso il suo incontro con la stampa internazionale, non sembrano avere prodotto risultati. Contro la donna che il 7 dicembre ha sostituito Pedro Castillo, accusato di un tentativo di autogolpe, continuano le manifestazioni di piazza e i blocchi stradali, mentre si fa sentire sempre più la mancanza di rifornimenti che colpisce anche gli ospedali. L’obiettivo della protesta, che dura ormai da un mese e mezzo, sono le sue dimissioni, nuove elezioni e una nuova Costituzione. Continua anche la violenza delle forze dell’ordine, accusate di far uso di armi da fuoco per reprimere una protesta che, finora, ha causato più di cinquanta morti.
Sempre più costretta in difesa, Boluarte ha dalla sua il sostegno della destra parlamentare, che ha imposto i ministri del suo gabinetto, alcuni dei quali ha dovuto anche sostituire per essersi dimessi in disaccordo con le scelte presidenziali. Gode dell’appoggio delle forze armate, che vedono in lei l’ultimo baluardo prima che il Paese cada nel caos definitivo: il che potrebbe spingerle a intervenire prima che sia troppo tardi. Sa che se dovesse dimettersi, in seguito al braccio di ferro intrapreso, dovrà affrontare i tribunali. E non dimentica la sorte dei suoi predecessori finiti in carcere.
In questa situazione, una trentina di deputati di sinistra ha messo mano con pochissime speranze alla procedura della vacancia per “permanente incapacità morale”, a causa della sua gestione della crisi. Da parte sua, Boluarte parla di gruppi radicali che hanno un fine politico ed economico, sostenuti dal narcotraffico, dal contrabbando, e dall’estrazione mineraria illegale. E punta il dito contro i ponchosrojos, una sorta di gruppo paramilitare aymara che, alla frontiera con la Bolivia, gode dell’appoggio dell’ex presidente Evo Morales, al quale è stata recentemente interdetta l’entrata in Perù. È la vecchia pratica con la quale si tenta di associare al terrorismo chi protesta, in un Paese che ha persino coniato il verbo terruquear, e che conferma come le gesta di Sendero Luminoso siano ben lungi dall’essere dimenticate.
Se all’inizio Dina Boluarte, unica ministra alla quale Castillo dava del “lei”, aveva accettato di fare la vicepresidente in un governo di sinistra, bersagliato in tutti i modi dall’opposizione, ora la situazione si è ribaltata, e la scena politica è stata occupata dai rappresentanti delle élite, contro le quali l’ex maestro era stato eletto. Questo è il fatto che ha spinto alla rivolta – in primo luogo i sostenitori dell’ex presidente, scesi in piazza per chiedere la sua liberazione, le elezioni e una nuova Costituzione. La repressione violenta della protesta – la cui caratteristica è il ripudio di tutti i gruppi parlamentari, ivi compreso Perù Libre, ovvero il partito di Castillo – ha fatto sì che si allargasse la base dei manifestanti, includendo coloro i quali chiedono che sia fatta giustizia per le vittime punendo i responsabili. Di questo passo, però, il movimento ha incluso anche portatori di interessi compositi: dai diritti al lavoro e alla tutela ambientale, fino a quelli dell’estrazione illegale dei minerali e del narcotraffico, legato alla coltivazione delle foglie di coca.
Se si ricorda che in Perù il 76,8% della popolazione è occupata in attività informali, e che, in considerazione del loro peso, lo Stato ha lasciato che si espandessero perché necessarie a far fronte ai bisogni di base delle persone, si può capire la complessità degli interessi e la vastità dei ceti sociali che stanno oggi scendendo in piazza. La protesta di queste settimane manca palesemente di una leadership: il che, oltre a favorire il ricorso alla violenza anche da parte dei manifestanti, rende difficile per il governo individuare un interlocutore politico con il quale trattare.
Castillo era apparso inizialmente come un outsider che si opponeva alle élite dominanti, ed era stato eletto con una esigua maggioranza di voti in un Paese drammaticamente polarizzato. Le vicende della sua caduta, e soprattutto i maneggi che hanno portato alla nuova presidenza, con il ribaltamento della maggioranza politica, hanno cementato questo ampio fronte, che vede nel parlamento e in Dina Boluarte il riperpetuarsi del dominio delle élite.
Fin da subito, l’obiettivo comune delle proteste è stato quello di anticipare le elezioni dall’aprile 2024, data in cui erano già state recentemente fissate, per farle svolgere entro la fine dell’anno in corso. Boluarte aveva cercato di far comprendere questa necessità a un Congresso unicamerale, che non ha interesse a farsi sciogliere, dato che una legge del 2018 impedisce ai suoi membri la ricandidatura. Impegnato, tra l’altro, a cercare di introdurre il bicameralismo.
Nell’incontro virtuale dell’altro giorno con l’Organizzazione degli Stati americani, Boluarte ha detto di avere fatto di tutto per spingere il Congresso a fissare le elezioni presidenziali e legislative il più presto possibile. Mentre pare che col suo gabinetto stia studiando un provvedimento mediante cui anticipare le elezioni a fine anno, aprendo così potenzialmente lo scontro anche con gli ambienti che ancora la sostengono. È difficile prevedere se sarà in grado di mantenersi al potere fino alla celebrazione delle elezioni, o se la spinta delle piazze non la costringerà a dimettersi.
Intanto, uno studio dell’Instituto de estudios peruanos (Iep) di gennaio dice che il 50% della popolazione peruviana appoggia la protesta, mentre il 46% è contraria. Se Boluarte dovesse dimettersi, al suo posto andrebbe il presidente del Congresso, José Williams Zapata, appartenente alla destra oppositrice di Castillo. Dal punto di vista di chi protesta, si passerebbe dalla padella alla brace.
Alcuni governatori regionali hanno proposto che a dimettersi sia tutta la dirigenza del Congresso, per permettere a qualche altro legislatore di assumere la presidenza, nel caso in cui Boluarte (che, sempre secondo Iep, ha il 71% della disapprovazione) getti la spugna. Ma sembra pure questa una proposta debole, visto il rifiuto generalizzato di ogni formazione politica attualmente in parlamento da parte di chi protesta. E mentre anche a Lima il 52% della popolazione, con il 72% dei giovani, giustifica le manifestazioni, il 38% degli intervistati pensa che esse siano vincolate al terrorismo, mentre il 13% le vede legate alle economie illegali. Al contrario, nel resto del Paese, il 50% ritiene che a protestare siano cittadini spontanei o organizzati.
Vista la situazione, un’altra possibile via d’uscita, spalleggiata dal 69% della popolazione, potrebbe essere la nascita di un’Assemblea costituente. Ma la crisi e la frammentazione del tessuto politico peruviano difficilmente potranno condurre le parti in gioco su un terreno di valori e principi condivisi, favorevole alla stesura di una nuova Carta fondamentale. Al tempo del ballottaggio tra Castillo e Keiko Fujimori, il cui padre lo aveva battuto quando si era candidato alla presidenza, il premio Nobel della letteratura, Mario Vargas Llosa, aveva espresso il suo appoggio alla figlia dell’antico avversario. Neoliberista e avverso da tempo a ogni forma di progressismo in politica, Vargas Llosa si era lasciato andare alla profezia che Castillo avrebbe portato il caos nel Paese, provocando il ritorno della dittatura militare. C’è solo da sperare che avesse torto.