Incubo arcobaleno. Come se non bastasse la grave escalation repressiva del regime algerino contro l’opposizione dei partiti e della società civile, ecco arrivare la caccia alle streghe targata omofobia, un pregiudizio presente praticamente in tutto il globo, ma che in alcuni luoghi, come appunto il Nord Africa, assume caratteri paranoici.
Nei negozi algerini sono in vendita 38.542 giocattoli e libri decorati con i colori arcobaleno, che evocano, magari senza una precisa intenzione, quel mondo Lgbt non riconosciuto dal governo. Così il ministro del commercio del Paese arabo, Kamel Rezig, ne ha ordinato, il 4 gennaio scorso, la distruzione lanciando al contempo una campagna di sensibilizzazione contro qualsiasi cosa osteggi la “religione di Stato”, la quale peraltro non parla affatto di quei temi, com’è ovvio che sia.
Nel mirino giocattoli, libri, anche vestiti, mentre copie del sacro Corano saranno distribuite in misura maggiore nelle scuole. Per il ministro “è ormai una necessità imprescindibile allertare i consumatori e gli operatori economici sulla presenza di questo tipo di prodotto”. Questa campagna, che durerà per tutto l’anno in corso e vedrà in azione i dipartimenti (wilaya) preposti, non risparmia commercianti e centri commerciali, che devono vigilare sulla diffusione di questi oggetti attraverso l’Unione generale dei commercianti e artigiani algerini (Ugcaa). Purtroppo per il governo, giocattoli e affini, che non fanno dormire sonni tranquilli alle autorità, non arrivano attraverso canali ufficiali ma secondo altre modalità sostanzialmente illegali. Allertati anche i servizi di sicurezza e gli scout musulmani. Tutto questo si inserisce in un contesto fatto di arresti, torture e repressione generalizzata, avviata con violenza da quando, nel 2019, è nato “Hirak” – che significa “Movimento” –, che, pur avendo nel giro di tre anni conosciuto un inevitabile indebolimento, in un primo momento aveva scosso il Paese senza trovare però una sponda politica. I limiti imposti dalle autorità, causa Covid, hanno inoltre agevolato la repressione, che ha visto negli ultimi due anni una deriva sempre più preoccupante.
Approfittando della “distrazione” dell’Occidente, che in primo luogo deve assicurarsi il gas algerino dopo la crisi russo-ucraina – come ha dimostrato in questi giorni la visita ad Algeri della premier italiana, Giorgia Meloni – il regime del presidente Abdelmadjid Tebboune sta mettendo in atto una drammatica ondata di sentenze di morte, le quali, come ha denunciato il 9 gennaio scorso Amnesty International, sarebbero state comminate dopo processi irregolari e dopo confessioni estorte anche con la tortura.
Si tratta di 54 condanne a morte, cinque delle quali in contumacia, fra cui una donna, decise nello scorso novembre con riferimento ai disordini violenti in Cabilia verificatisi nell’agosto del 2021. Sempre secondo Amnesty, “almeno sei sono stati condannati perché affiliati al Maky (Movimento per l’autodeterminazione della Cabilia), bollato come organizzazione terrorista dal governo”. Gravissime le denunce di uno dei giudici della difesa, secondo il quale almeno cinque imputati condannati hanno riferito di essere stati sottoposti a scosse elettriche e a tentativi di waterboarding, oltre che a minacce di stupro.
Per Emma Guellali, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa, “ricorrendo alla pena di morte le autorità algerine non solo rivelano il loro totale disprezzo per la vita umana, ma mandano anche un agghiacciante messaggio su come la giustizia viene amministrata oggi in Algeria. Praticare la pena di morte – aggiunge Guellali – non è mai giustificabile, qualunque sia il crimine commesso. Queste spietate sentenze capitali e detenzioni devono essere subito invalidate. Tutte le accuse di tortura e di altri maltrattamenti devono essere indagate prontamente, così come i processi devono essere ripetuti per tutti coloro che sono stati giudicati in contumacia o per le loro idee politiche”.
Come riporta l’agenzia Ansamed “dall’aprile 2021 Algeri ha fatto ampio ricorso all’art.87 bis del suo codice penale per perseguire attivisti, difensori dei diritti umani e giornalisti per crimini connessi al terrorismo”. Nel mirino, anche i media legati al dissenso e alle proteste contro un regime dai tempi della decolonizzazione nelle mani del vecchio Fronte di liberazione nazionale, da decenni diventato sinonimo di autoritarismo. Il giornalista El Kadi, collaboratore di “Radio Maghreb” e “Maghreb emergent”, chiusi il 24 dicembre, è stato incarcerato nei giorni scorsi. Nel 2022 sono stati presi di mira i partiti dell’opposizione e i suoi dirigenti. È stato il caso di Fethi Ghares, leader del partito di sinistra Movimento democratico e sociale (Mds), condannato a due anni di carcere e a una multa di duecentomila dinari per “incitamento a manifestazione non armata” e “offesa a organismi dello Stato”, oltre che a “diffusione di informazioni dannose per gli interessi nazionali”. Nel suo appartamento erano stati trovati documenti politici e fotografie di prigionieri appartenenti a “Hirak”. La stessa sorte era stata precedentemente riservata a un altro esponente del Mds, che il 16 giugno del 2021 era stato condannato a un anno di carcere.
Insomma, una volta ridimensionato “Hirak” l’obiettivo del governo e dei partiti di regime – il Fln e il Rnd (Raggruppamento nazionale democratico), quest’ultimo nato da una costola dell’ex movimento indipendentista, e gli islamici moderati del Movimento per la pace sociale (Mps), all’opposizione, ma al quale sono state fatte numerose concessioni – è quello di colpire tutti coloro che hanno sostenuto il movimento: a cominciare, appunto, dai partiti la cui esistenza è resa particolarmente complicata da una serie di provvedimenti che ne regolamentano l’attività. Grazie alla legge n. 12/04 il Consiglio di Stato li può sciogliere qualora, per esempio, svolgano attività che violano la legge o non sono conformi al loro statuto. Addirittura debbono svolgere i loro congressi in un periodo di tempo stabilito. Inoltre se un’organizzazione politica dà vita a iniziative non compatibili con la linea del partito – problema che normalmente dovrebbe riguardare i dirigenti e i militanti di quella organizzazione – diventa un affare di Stato, che può intervenire a suo piacimento.
Al riguardo sono finiti nel mirino del ministero degli Interni il Partito socialista dei lavoratori (Psl) e l’Unione per il cambiamento e il progresso (Ucp). Questi piccoli partiti – tutti sostenitori di “Hirak” – non hanno preso parte alle elezioni presidenziali, parlamentari e amministrative, la cui affluenza alle urne non supera il 30%. Fin dalla sua indipendenza, l’Algeria ha conosciuto aperture democratiche e derive autoritarie da parte dei vari governi che si sono succeduti. Drammatico fu il colpo di Stato dell’11 gennaio del 1992 che bloccò il Fis (Fronte islamico di salvezza), che l’anno prima aveva vinto nettamente le elezioni politiche. Un evento che divise le forze politiche democratiche algerine sull’opportunità o meno di ignorare il risultato elettorale, il cui annullamento venne considerato da alcuni il male minore rispetto all’arrivo al potere di una forza fondamentalista. Ciò che ne seguì è cosa nota. Malgrado un accordo di pace del 1995, al quale aderì anche il Fis, il Gia (Gruppi islamici armati) scatenò una feroce guerra a base di atti terroristici, con un conseguente scontro senza esclusioni di colpi con l’esercito, fino al cessate il fuoco del 1997. Da allora, come dicevamo, si sono alternati scenari diversi.
“Come definire allora l’Algeria? È una democrazia, un regime illiberale o una dittatura?” – si chiede “Confronti”, storica rivista cattolica attenta al dialogo interreligioso. In un’intervista rilasciata al mensile, Yahia Zoubir, professore di Relazioni internazionali e direttore di ricerca in Geopolitica alla Kedge Business School di Marsiglia, “l’Algeria è un Paese in una sorta di transizione da un regime a un altro. Forse può essere definita una democrazia illiberale o semi-autoritaria, perché sono concesse molte libertà, come quella di stampa – anche se alcuni giornalisti sono arrestati per un motivo o per un altro – ma non è un sistema come quello della Tunisia di Ben Ali o di Gheddafi in Libia”. Secondo Mouloud Boumqhal, docente alla Université de Picardie “Jules Verne” di diritto pubblico, specializzato in diritto internazionale dei diritti umani, “le autorità vogliono mostrare e promuovere l’immagine del Paese come democrazia sulla base del fatto che ci sono elezioni. Ma se si guarda più da vicino, non sono libere”. Riguardo al giro di vite che il regime ha messo in atto, soprattutto dopo l’esplosione di “Hirak”, Boumqhal è netto: è in atto “un cambiamento nella natura della repressione e del regime, che diventa sempre più autoritario, perché non tollera più gli spazi autonomi che non sono sotto il suo controllo. La scala della repressione è più alta e più intensa, e forse significa che la natura del regime sta cambiando perché sta diventando sempre più autoritario per non parlare di dittatura”.
Per frenare questa pericolosa involuzione, l’Occidente potrebbe giocare un ruolo, ma ormai questa è una partita persa in partenza. Troppo preziose sono le risorse del più grande Paese africano. E l’impegno solidale dell’Europa, per non parlare degli Usa, è roba novecentesca. Dall’ipocrisia del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, al Qatargate. Dall’accettazione supina del nuovo governo israeliano alla finale di Supercoppa, giocata a Riad, mentre un docente universitario veniva condannato a morte, fino al caso Regeni, la difesa dei diritti umani è ormai appannaggio soltanto di associazioni umanitarie, come Amnesty o Human Rights Watch. I governi, senza alcuna esclusione, guardano solo alla geopolitica e agli interessi commerciali.