Prima o poi, il problema si sarebbe posto perfino se Jair Bolsonaro fosse uscito vincitore dalle urne (per garantirsi la massima clientela elettorale possibile, negli ultimi sei mesi di governo, ha affondato il deficit pubblico con la spesa sociale). Per inerzia avrebbe continuato a spingere sullo sfruttamento estensivo (e illegale) dell’Amazzonia, sui pascoli per i bovini e il legname da esportazione; sarebbe stata intensificata la ricerca d’idrocarburi, malgrado gli accordi di Parigi e i tre presidenti di Petrobras, che – uno dopo l’altro – l’ex capitano passato alla politica ha prima nominato e poi cacciato, senza riuscire a contenere neppure di una virgola i prezzi dei carburanti. Dato primario in un Paese gigantesco, in cui i trasporti vanno al 99,9% su gomma. Con un ministro dell’Economia che, raggiunta un’inflazione da “sequenza Fibonacci”, ha proposto ai supermercati, ovviamente inascoltato, un blocco volontario dei prezzi. E una Confindustria in fibrillazione per le crescenti difficoltà a finanziare l’indispensabile import tecnologico.
Destabilizzare il Paese-chiave del subcontinente, già in così gravi difficoltà, per riportare al potere l’ex presidente fuggiasco negli Stati Uniti, a rischio di una mezza guerra civile, e con la certezza dell’isolamento internazionale, è un pensiero da disperati (del diretto interessato per primo, ossessionato com’è – dicono da più parti – dalla possibilità di finire sotto processo, incriminato per la strage da Covid-19, la cui pericolosità ha irriso e negato fino all’ultimo).
L’assalto di domenica 8 gennaio ai palazzi delle massime istituzioni democratiche nazionali ha però dimostrato che i disperati non mancavano, e del resto erano a migliaia accampati nei pressi, da settimane, alla vista di tutti. Decisi a essere la fiammella capace di far divampare l’incendio. Invece avevano sbagliato i conti. Illusi dalla complice tolleranza dei reparti dell’esercito e della polizia, che avrebbero dovuto quanto meno contenerli, si sono convinti che mancava solo il gesto estremo. E l’hanno compiuto.
L’incendio, però, non si è acceso. L’eversione militare non ha varcato il confine dell’atto dimostrativo. Malgrado l’incursione teppistica portata avanti per molte ore – raccontate in diretta, momento per momento, dalle telecamere della tv Globo, il cui spirito di servizio dev’essere stato ulteriormente ravvivato dai duri, frequenti e noti contrasti che l’hanno opposta a Bolsonaro negli anni di governo. Risulta così smentita dai fatti anche la sua incauta predizione del 2018, quando – ancora semplice deputato dell’estrema destra – aveva pubblicamente dichiarato che, nel caso di un ipotetico conflitto, “sarebbero sufficienti un caporale e un soldato per chiudere il Supremo tribunale federale”. Tenuto, dunque, fin da allora sotto mira. La sua visione si configura come un residuo ormai inservibile della dottrina della “salvezza nazionale” latinoamericana del secolo scorso. E ne rivela tutta la vuotezza. Lasciando allo scoperto la sua nuda violenza, così come l’assenza di un qualsiasi progetto di sviluppo, che non sia il selvaggio sfruttamento dell’ambiente naturale.
La crisi ha potuto favorire l’arruolamento di bande di facinorosi, trovare simpatizzanti nella pregiudiziale diffidenza, quando non nell’aperta contrarietà di molti militari, verso la democrazia e i diritti diffusi: tra le migliaia di essi, ora timorosi di perdere i posti sicuri e ben pagati nella burocrazia statale, ottenuti con il governo di Bolsonaro. Ma nessun generale con la testa sul collo, nessun industriale, nessun banchiere alle prese con il mercato interno, poteva lasciarsi irretire da un avventurismo tanto cinico quanto privo di prospettive. Quand’anche ben distanti da simpatie per Lula, costoro giocheranno la partita sul terreno politico, tentando di forzare a proprio favore il riconosciuto pragmatismo del nuovo presidente. Il quale ha prontamente autorizzato sussidi al prezzo dei carburanti (come richiesto dai potenti sindacati dei camionisti), e promette di gestire una politica d’inevitabile austerità, attraverso una riforma fiscale progressiva ma capace di sollecitare investimenti privati interni e internazionali.