Il nostro Guido Ruotolo, in un articolo del 19 luglio 2021, riferisce di un libro pubblicato da Michele Santoro e da lui stesso (vedi qui), che intende offrire una ricostruzione della strage di via D’Amelio, a Palermo, molto diversa da quella diventata nel tempo dominante: non ci sarebbe stato un uomo dei servizi segreti sul luogo dell’attentato a Borsellino, ma un semplice “picciotto” scambiato per un agente. Per conseguenza, gran parte della dietrologia che si è fatta e si va facendo intorno a quel caso (incentrata, com’è noto, sulla scomparsa della famosa “agenda rossa” del magistrato palermitano) sarebbe frutto di fantasia, la strage del 19 luglio 1992 essendo un delitto di mafia, privo di apporti “esterni”. Chi scrive non ha particolari elementi di giudizio per sposare una versione dei fatti o un’altra. È fuor di dubbio, però, che nel caso fosse credibile la ricostruzione fornita da Ruotolo e Santoro, basata sulle dichiarazioni a loro rese dal “pentito” Avola, ciò non muterebbe la sostanza, il senso complessivo del discorso circa la mafia come un fenomeno criminale che ha potuto giovarsi, nel corso della storia dell’Italia repubblicana, di una molteplicità di appoggi e collusioni nelle istituzioni e nella politica.
La circostanza che Matteo Messina Denaro sia stato catturato ormai ammalato, al termine di una trentennale latitanza, può servire come una conferma della tesi intorno alla ramificazione dei sostegni di cui godono i boss mafiosi. Potrebbe trattarsi non soltanto, e non principalmente, di un tessuto culturale siciliano che fungerebbe da protezione per un certo ambiente criminale; non sarebbe, cioè, una presunta antropologia locale – l’impasto di arcaismo e modernità tipico del Mezzogiorno d’Italia, con la sua concezione omertosa, familistico-individualista, della vita sociale – alla base delle coperture mafiose, ma qualcosa di più specifico, che attiene alla stessa “storia naturale” del potere in Italia. Siamo in effetti nel Paese delle trame e dei misteri. Nulla di paragonabile, in Europa, alla vicenda italiana: quale altro Paese, per dirne una, ha dovuto subire una minaccia di colpo di Stato fin dall’apertura progressista del primo centrosinistra, negli anni Sessanta, per avere osato mettere in discussione – in particolare con il tentativo di una legge urbanistica sui suoli pubblici – l’assetto proprietario e di potere tradizionale? E dove altro si è mai visto un capo dello Stato (Antonio Segni) coinvolto nell’organizzazione del pre-golpe?
Ciò esula completamente da quella che si è soliti chiamare una “normalità democratica”. La successiva “strategia della tensione” – uno stillicidio di attentati e di morti durato molto a lungo, che ebbe il suo paradigmatico inizio con le bombe del 1969 – è oggi all’occhio dello storico, come lo era a quello dei militanti di sinistra dell’epoca, una forma di reazione violenta, stragista e ancora tendenzialmente golpista, a un processo di democratizzazione della società; ed è qualcosa che trovava l’appoggio degli Stati Uniti, decisi a contrastare con ogni mezzo, legale o illegale, il possibile avvento al governo di quello che era il più forte Partito comunista dell’Occidente (la qual cosa è testimoniata, del resto, dall’esistenza di una rete paramilitare segreta, denominata Gladio, messa su con l’ausilio della Cia). Le basi del fenomeno, tuttavia, non potevano non essere autoctone. È proprio l’Italia, una sua peculiare struttura del potere (che potrebbe essere detta “machiavellica”), a costituire il filo conduttore di quanto è accaduto: dal piano golpista dei primi anni Sessanta (in un momento in cui la conflittualità sociale e politica impensieriva soltanto una parte consistente della classe dirigente italiana, non ancora gli Stati Uniti) fino alle stragi di mafia degli anni Novanta.
Ora – e qui sta il busillis – negli anni Novanta il blocco sovietico si era dissolto, il Pci aveva infine cambiato nome, trasformandosi in una forza politica nemmeno socialista ma liberaldemocratica: non c’era più, insomma, quel contesto internazionale e nazionale di cui si era nutrita la strategia della tensione. Lo stesso neofascismo sembrava ormai votato a diventare, nella sua maggioranza, una specie di ultraconservatorismo in stile europeo, con un conseguente sovranismo (o nazionalismo) adeguato a una battaglia politica interna al processo di integrazione dell’Europa. Nulla avrebbe perciò fatto pensare a una ripresa della strategia stragista. Nemmeno a un’organizzazione criminale sarebbe convenuto attirare così tanto su di sé l’attenzione: anche pensando a un intento di ricatto nei confronti dello Stato, un’ondata di attentati all’esplosivo sembrerebbe spropositata. Com’è stato notato di recente dal magistrato anti-mafia Nino Di Matteo, il giudice Falcone avrebbe potuto essere ucciso con modalità più discrete di quelle messe in atto a Capaci, con un enorme dispendio di uomini e di mezzi, e con un’alta probabilità di fallire. Ma no: si voleva la strage spettacolare, e si ebbe la strage spettacolare.
Oggi Giorgia Meloni, faccia presentabile della destra, ama ripetere che si decise all’impegno militante proprio dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio. Evita di rammentare, però, che l’intera sua carriera politica è stata resa possibile dalla presenza di Berlusconi, delle sue aziende e del suo partito. Inoltre non le converrebbe ricordare che, stretto collaboratore del suo alleato storico, è stato all’origine un certo Dell’Utri, condannato per mafia. È dunque facile – sebbene a qualcuno potrà apparire ingeneroso – stabilire un nesso tra gli eventi berlusconiani, compresi tra il 1993 e il 1994, e il postberlusconismo della presidente del Consiglio in carica: le sue radici sono là, molto più che nel fascismo storico. Senza la sponda offerta dal berlusconismo politico, con tutto ciò che questo implica, non sarebbe stato possibile il successo di cui gode oggi l’estrema destra italiana.
Inevitabilmente, allora, occorrerà considerare ciò che accadeva a quel tempo nel mondo politico. Si era nel pieno di Tangentopoli. In una maniera non priva di aspetti qualunquistici, cioè puramente anti-corruzione, un sistema di potere nondimeno si stava sgretolando: era quello imperniato, da ultimo, sull’alleanza tra Andreotti e Craxi. Il crollo di questo passato, venuto a solidificarsi per un tratto lunghissimo in un inscalfibile presente, va posto in relazione con la serie di attentati messi in atto dalla mafia. A qualcuno non importava niente che il comunismo non potesse più essere presentato come una minaccia: bisognava creare le condizioni di un allarme a prescindere. Il partito berlusconiano, a partire da un’organizzazione imprenditoriale, era in via di formazione. Il suo obiettivo principale era di salvaguardare un impero economico e mediatico. Una serena democrazia dell’alternanza – con il rischio che qualcuno, montandosi la testa, volesse porre fine all’anomalia di un potentato oligopolistico, televisivo ed editoriale, nelle mani di un uomo solo – era un rischio da cui guardarsi. E quelle stragi, pur fuori tempo rispetto all’epoca della guerra fredda, avrebbero fatto gioco.
Quanto al fenomeno mafioso in sé – da assumere, alla Sciascia, nella sua valenza più generale di metafora –, esso è il segno di una storia che non è mai riuscita a presentarsi con un volto del tutto pulito. Conseguenza della “mafiosità” intrinseca di una classe dirigente, o di una consistente parte di essa. Non qualcosa che alligni solamente nella storica e presunta “arretratezza” del Mezzogiorno (che meglio sarebbe da descrivere come uno “sviluppo del sottosviluppo”, assumendo l’ultima parola, anche in questo caso, in un senso traslato e potenzialmente metaforico), ma qualcosa che, alla stregua del fascismo per Piero Gobetti, è parte integrante dell’ “autobiografia della nazione”.