Paranoia anti-Covid. Dietro quello che sta succedendo in questi giorni in Cina –confinamenti durissimi e proteste massicce della popolazione in tutto il Paese –, c’è qualcosa che corre sul filo dell’irrazionalità. Ogni giorno si registrano almeno quarantamila contagi, la maggioranza dei casi asintomatici, ma si tratta sempre di percentuali irrisorie in un Paese che conta circa un miliardo e quattrocento milioni di abitanti.
La scintilla che ha scatenato le proteste è stato l’incendio di sabato scorso a Urumqi – capoluogo dello Xinjiang, regione già perennemente in conflitto con il governo centrale (vedi qui) –, che ha provocato almeno una decina di morti. Si tratta di persone rimaste intrappolate in un edificio le cui vie di fuga erano bloccate, o limitate, a causa delle restrizioni imposte per la pandemia. E a ciò va aggiunto il timore della gente di uscire dallo stabile a causa delle misure repressive.
L’epicentro delle proteste – che hanno comunque già prodotto un allentamento delle misure restrittive a Urumqi – si è poi spostato a Shanghai, dove la popolazione è scesa in piazza con dei fogli bianchi divenuti il simbolo della mobilitazione. E ancora a Pechino, Chengdu, Chongqing, Wuhan, Zhengzhou e Nanchino – insomma in tutto il Paese. Questa mobilitazione nel subcontinente asiatico è ben più ampia di quella che portò alla rivolta di Tienanmen, nel 1989, la cui repressione provocò un migliaio di morti: una risposta che la Cina di oggi non può assolutamente permettersi. E recentemente c’erano state altre sollevazioni, sia pure meno massicce.
Secondo Serena Console – orientalista, videomaker e collaboratrice del “manifesto” – “stando ai dati raccolti dal China Dissent Monitor, negli ultimi sei mesi ci sono state 822 contestazioni per la politica zero-Covid, il settore immobiliare, i diritti dei lavoratori e la corruzione dei funzionari. Ma – aggiunge Console in un articolo pubblicato dal quotidiano – a differenza delle altre, come la più recente nello stabilimento di Foxconn a Zhengzhou, scoppiata per la tutela dei diritti dei lavoratori, nella più ampia cornice della politica zero-Covid, queste proteste si sono verificate anche in zone non coinvolte dal lockdown, coinvolgendo numerose categorie della popolazione. Dai migranti agli studenti fino alla borghesia urbana, la draconiana politica anti-virus colpisce chiunque, generando una frustrazione ormai generalizzata”.
Riguardo alla repressione, che finora è stata tutto sommato moderata – le forze dell’ordine si sono limitate a presidiare i luoghi della protesta e hanno effettuato alcuni arresti –, John Delury, esperto di Cina alla Yonser University di Seul, sostiene nel sito dell’Ispi (Istituto studi politiche internazionali) che “ci si poteva aspettare un approccio più duro, ma questo rischia di creare martiri, alimentando un’altra ondata di proteste, offrendo nuova linfa ai manifestanti. Le autorità cinesi – aggiunge il professore – sono abbastanza intelligenti da essere consapevoli dei pericoli, ma non possono nemmeno lasciare che la protesta si allarghi”. Il dissenso, in questa fase storica e soprattutto nei regimi autoritari, utilizza i moderni social (Weibo e Wechat, per esempio) al fine di diffondersi.
Secondo il vicedirettore regionale di Amnesty International, Hana Young, “le persone non ne possono più di lockdown, quarantene, test di massa e sorveglianza elettronica”. È evidente che questa politica dello zero-Covid non sta funzionando, a fronte anche di una limitata vaccinazione della popolazione. “Le proteste nelle strade di Shanghai mostrano che la capacità di sopportazione dei confinamenti è stata superata – dice Alessia Amighini, co-head dell’Osservatorio Asia dell’Ispi – la malagestione della pandemia è ormai evidente. I contagi aumentano, nonostante i lockdown. I cittadini chiedono a gran voce una soluzione alternativa alla politica zero-Covid, ma la chiedono al partito. Criticano la politica di Xi”.
Perché il governo cinese a fronte di dati assolutamente esigui del contagio – dall’inizio della pandemia sarebbero morte solo cinquemila persone – soprattutto se confrontati con quelli del resto del mondo che riesce relativamente a convivere con il virus, si ostina a perseverare in questa politica? Una delle ragioni risiede in un sistema sanitario nazionale che appare ancora inadeguato a fronteggiare un aumento importante dei contagi.
In un’intervista rilasciata a Radio popolare, Francesca Spigarelli – economista dell’Università di Macerata e direttrice del China Center – ricorda come la Cina stia attraversando “un enorme processo di riforma del sistema sanitario, che dovrà portare, secondo le previsioni del nuovo piano Healthy China 2030, all’innalzamento degli standard di qualità del sistema. Ci sono quindi ancora dei pezzi di Cina – sottolinea la docente – in cui l’assistenza sanitaria e le norme igienico-sanitarie non sono per nulla adeguate. Molto spesso le influenze partono dagli animali e dai mercati, da situazioni igienico-sanitarie non particolarmente elevate. Anche se, all’inizio della pandemia, il Paese ha dato una prova di grande efficienza nella gestione dell’emergenza”.
Il regime, dunque, vive nel terrore che, dinanzi a una maggiore contagiosità del virus, nel giro di poco tempo il numero delle infezioni possa arrivare a oltre trecento milioni. Secondo alcuni osservatori, la politica sanitaria del governo all’arrivo della pandemia è stata solo “repressiva”. Test di massa, quarantene, isolamento, invece di un aumento delle strutture di terapia intensiva e della disponibilità ad accettare vaccini occidentali ritenuti più efficaci.
Questo scenario così incerto mal si coniuga con una politica di grande penetrazione economica della Cina in Africa e in Asia centrale. “Negli ultimi anni e in maniera ancora più consistente negli ultimi mesi – dice Marco Santopadre, analista dell’area del Mediterraneo, del Medio Oriente e dell’Africa, in un articolo pubblicato su “www.pagineesteri.it” – i legami economici tra Kazakistan e Cina sono cresciuti. In Pechino il Kazakistan – insieme al Turkmenistan – ha trovato una sponda per diversificare le esportazioni di gas e petrolio, estratti spesso da aziende russe, grazie alla realizzazione delle pipeline Asia Centrale-Cina e Kazakistan-Cina; in cambio delle forniture di idrocarburi all’energivoro gigante asiatico, le repubbliche centrasiatiche hanno ottenuto decine di miliardi di investimenti e l’accesso delle proprie merci all’enorme mercato cinese”. Xi Jinping, a metà settembre, in Uzbekistan per prendere parte al vertice dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, ha firmato con Tashkent accordi per sedici miliardi di dollari. “Quasi quattro volte – sottolinea Santopadre – il valore di quelli sottoscritti con Mosca (4,6 miliardi). Inoltre, nel 2021, la Cina ha superato la Russia come fonte principale di investimenti diretti esteri in Uzbekistan con 2,2 miliardi di dollari contro i 2,1 di Mosca”.
Insomma, a causa dell’impegno bellico, la Russia, naturale interlocutrice di quelle repubbliche asiatiche una volta facenti parte dell’Urss, sta perdendo terreno in quell’area, favorendo così sia la penetrazione turca, in quanto esistono importanti minoranze turcomanne, sia quella occidentale e cinese. Una volta “lo sceriffo russo – dice l’analista – deteneva il controllo militare e politico, mentre la Cina sviluppava la propria influenza economica e commerciale. Ma le recenti evoluzioni geopolitiche stanno avvantaggiando Pechino anche come interlocutore politico strategico dei diversi stan”.
Questo iperattivismo mal si concilia con una situazione interna che – causa misure anti-Covid – rischia di destabilizzare socialmente ed economicamente il Paese, spingendo quindi il Dragone, con tutta evidenza, a cercare strade alternative per il contrasto alla pandemia, mettendo da parte la politica fin qui tenacemente seguita.