La differenza tra una cultura dell’individuo e una del collettivo è da mettere in relazione con diverse tipologie di società. L’individualismo vede come prioritari gli obiettivi del singolo rispetto a quelli del gruppo a cui appartiene. Le persone informate a una cultura individualista si identificano soprattutto con gli attributi personali piuttosto che con quelli del gruppo. Nel caso del collettivismo, accade il contrario: l’obiettivo del gruppo è prioritario rispetto a quello dell’individuo, e ci si identifica con gli attributi del gruppo piuttosto che con quelli personali (come sostiene Robin Dunbar). Nelle società individualiste le persone sono educate, sin da bambini, a perseguire i loro personali interessi, e si mira a formare in questo modo le loro personalità.
La scuola ha un ruolo centrale nella formazione della personalità, e ciò anche nel senso della valutazione del profitto. Quindi la valutazione forma la personalità? Sicuramente la influenza. Vissuta come la più naturale (ma anche traumatica) delle vicende dagli studenti fin dal primo giorno di scuola, la valutazione è complessa e problematica, da qualsiasi punto di vista la si guardi. Come sappiamo, la valutazione non è nata ieri. Nelle istituzioni scolastiche ha svolto una funzione essenziale soprattutto nella società moderna, in cui i valori dell’uguaglianza e della libertà hanno assunto un ruolo centrale. Nel mondo dell’ancien régime, le posizioni e i ruoli sociali dipendevano dalla nascita: per occupare un rango sociale elevato occorreva essere “figli di”. Poi, con lo sviluppo della modernità, si è affermata l’idea che gli individui siano tutti uguali per nascita: e la questione della distribuzione degli onori e delle funzioni è passata a dipendere dalla valutazione delle capacità, formate da sistemi scolastici ancora da costruire. Il nuovo motto è diventato: a ciascuno secondo il suo merito. L’idea stessa di valutare porta con sé dei valori, e i valori non sono neutri. La valutazione, che si presenta come un rispecchiamento oggettivo della realtà, è un “dispositivo governamentale” nel senso foucaultiano: un’antropotecnica, un fattore di produzione di forme di vita; nel caso, un prodotto di ingegneria sociale, un correlato della forma mentis dell’homo œconomicus.
Valeria Pinto, docente di filosofia teoretica, in Valutare e punire (2012), un libro di filosofia della cultura, affronta la questione contingente del sistema di valutazione dell’istruzione e della ricerca, Invalsi e Anvur. La valutazione – sostiene la filosofa – è uno strumento tutt’altro che oggettivo, in quanto insieme di pratiche di sapere e potere, che trova nelle società neoliberali un’applicazione sempre più pervasiva. La scuola non è un’isola nel mare della società, inevitabilmente ne subisce gli influssi e ne assorbe pulsioni e tendenze.
La scuola è un contesto di significati, in cui si incontrano e si scontrano valori, dove ogni scelta di contenuto e di metodo è anche una scelta di campo, dove le scelte istituzionali promuovono e sostengono una specifica visione di persona, di società, e quindi di politica. Il compito della valutazione, quella che ogni giorno viene fatta nelle aule, risponde a una logica che tiene conto dei processi di apprendimento dell’individuo. Quando il sistema pretende di valutare l’essere della persona, quale può essere l’esito? “Se ricevo una valutazione negativa è perché sono una nullità”. Le scelte non sono mai imparziali: anche quelle che valorizzano dinamiche competitive sottendono un riferimento culturale, in gran parte ascrivibile al pensiero unico neoliberista, che ha fatto della competizione un valore assoluto e indiscutibile.
L’apprendimento cooperativo, invece, crea un contesto educativo non competitivo, altamente responsabile e collaborativo, produttivo di processi cognitivi di ordine superiore. Consiste innanzitutto in quel metodo didattico che utilizza piccoli gruppi, all’interno dei quali gli studenti lavorano insieme; permette il miglioramento continuo dei processi di apprendimento e permette un’analisi attenta di come i membri stiano lavorando insieme, e come essi possano aumentare l’efficacia del gruppo. Premesse necessarie ma non sufficienti, perché se, da una parte, l’apprendimento cooperativo, è predicato da molti, dall’altra, trova molte resistenze soprattutto nel momento della valutazione.
Quale che sia l’idea che ne abbiamo, rimane il fatto che la valutazione è uno strumento di selezione, distinzione ed etichettamento: se vale il principio della competizione la valutazione genera esclusione, se vale il principio della cooperazione la valutazione aiuta a promuovere azioni di confronto, dialogo e collaborazione. Fra gli studenti c’è chi ama studiare, c’è chi è spinto dalla forza della volontà, c’è chi apprende con più facilità, c’è chi è più maturo, c’è chi è più in sintonia con una disciplina chi con un’altra, c’è chi è costretto a impegnarsi per dimostrare i risultati raggiunti ai genitori, c’è chi ha più bisogno di tempo per comprendere o rispondere a una domanda. Ma dovremmo partire dal presupposto che tutti sono capaci, nessuno è più bravo dell’altro, sono solo diversi.
Non è certo pensando alla competizione che nella Costituzione si è assegnato alla Repubblica e alle sue istituzioni (quindi anche e soprattutto alla scuola) il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3). La sfida è anche il rafforzamento di quei processi, da cui dipenderà largamente il perseguimento di una giustizia globale. Tutto ciò non è immediato, né tantomeno facile.