Che il Partito democratico e i grillini dovessero incontrarsi, fare governi insieme, perfino stringere un’alleanza strategica, era scritto nelle stelle fin da quel 2009 che vide la candidatura di Beppe Grillo – infine respinta – alla segreteria dello stesso Pd. Famosa la profetica sfida lanciata dal mago Piero Fassino: “Se Grillo vuole candidarsi, faccia il suo partito e vediamo quanto prende”. Fu accontentato e già nel 2013 il Movimento 5 Stelle – allora guidato dall’illuminato pensiero di Gianroberto Casaleggio, il guru della rete che aveva riadattato un originario olivettismo alla prospettiva di una democrazia diretta tramite Internet – raggiunse d’un colpo la stessa percentuale di voti faticosamente racimolata da Bersani con metodo tradizionale. Seguì un patetico confronto in streaming tra lui, in cerca di una maggioranza al Senato, e una delegazione di parlamentari grillini – ma non se ne fece nulla. Chiusura completa da parte di questi ultimi, che determinò lo scivolamento a destra dell’intero quadro politico, con la perdita della leadership da parte di Bersani a favore del rampantissimo Renzi, e il solito governo di unità nazionale con Forza Italia. E però stava “scritto lassù” che le due formazioni dovessero incontrarsi: cosa che la cronaca recente si sta incaricando di dimostrare.
Populismo a parte, infatti, i 5 Stelle sono da sempre una forza politica “liberale moderata”: il che soltanto adesso, nel pieno di una crisi interna, hanno trovato il coraggio di dichiarare. E si può ricordare il caso di un lontano antenato del grillismo, quel Guglielmo Giannini fondatore dell’Uomo qualunque, che, dopo la dissoluzione del suo movimento, terminò la carriera politica da liberale. Certo, di mezzo c’è stato tanto livore contro l’Unione europea (anche giustificato, visto il Patto di stabilità con austerità relativa), e, agli inizi del grillismo, addirittura la “decrescita felice” (una soluzione ecologista radicale che vorrebbe tagliare i ponti con la tematica del “nuovo modello di sviluppo”); ma in fin dei conti – anche volendo prendere come autenticamente di sinistra la proposta, poi realizzata, di un “reddito di cittadinanza” – i 5 Stelle, nati dall’unione di un manager con un comico, non si sono mai sognati di muovere la minima critica al capitalismo in quanto tale.
Guarda caso, anche il Pd è su questa stessa lunghezza d’onda: nessuna idea di “conflitto sociale”, nessuna messa in questione del sistema – neppure in senso riformista gradualista – nel suo Dna, soltanto la prospettiva di una gestione liberaldemocratica della cosa pubblica. Con o senza la “vocazione maggioritaria” cara a Veltroni. Il che, in altre parole, vorrebbe dire: al governo tendenzialmente da soli (senza peraltro riuscirci) o, più realisticamente, stringendo alleanze?
Il dibattito in corso oggi nel Pd – in quel coacervo di correnti e di potentati che è il Pd, in una maniera che, fin dalla sua nascita, lo apparenta alla vecchia Democrazia cristiana – si riduce alla domanda: dobbiamo o non dobbiamo fare un’alleanza strategica (leggi: per le prossime elezioni) con i 5 Stelle e quel che resta di una sinistra alla nostra sinistra? La risposta è piuttosto facile: sì, se si vuole avere una benché minima possibilità di vittoria nei confronti di una destra estrema al quaranta per cento nei sondaggi. Tutto il resto non è vita, è solo neocentrismo da Italia viva il quale, dato che in realtà può soltanto mirare a sopravvivere, si prepara a governare eventualmente con chi avrà vinto, anche con la Lega nel caso (e il governo Draghi, con la maggioranza che lo sostiene, è una “mossa” funzionale appunto a questo disegno).
Se le cose stanno così, non si comprende la proposta di coloro che vorrebbero una ridefinizione del centrosinistra che passi per una scomposizione del Pd. L’alleanza di un nuovo centrosinistra è nei fatti già delineata: è quella tra il Pd e i 5 Stelle. Nient’affatto strategica, a pensarci bene, ma tattica, con l’obiettivo di contrastare un probabile trionfo della destra alle prossime elezioni. In una situazione del genere sarebbe da sconsiderati pensare di mettersi a rifare il centrosinistra avviando un “processo costituente” che, alla fin fine, ricalcherebbe la situazione attuale – cioè non un partito di critica del capitalismo, neppure veramente un partito del socialismo europeo ma un altro ibrido – con in più, forse, la fuoriuscita di alcuni dei notabili più classicamente democristiani, che verrebbero regalati al progetto neocentrista di Renzi insieme con le loro clientele di riferimento. C’è già l’annunciata leadership di Conte nel movimento grillino a togliere voti al povero Pd, e non sarebbe davvero il caso di contribuirvi perseguendo un progetto irrealistico e confuso.
Resta sullo sfondo l’immane compito della ricostruzione, o meglio costruzione ex novo, di una cultura politica di sinistra e socialista. Ma questo è per i tempi lunghi. I partiti politici non nascono come funghi o da “fusioni a freddo”: sarebbe un’illusione del passato che ha dato come frutto proprio il Pd e che, se ripetuta, darebbe come risultato ancora un Pd. No, qualcosa dovrà cambiare nella realtà sociale, dovrà esserci l’apertura di molteplici fronti di lotta, intensi dibattiti nelle associazioni e nei movimenti, prima che si possa ricominciare a parlare di un partito. Nelle forme che quella nuova realtà sociale sarà capace di dargli.