Obiettivo curdi. Con la scusa dell’attentato del 15 novembre scorso, che ha insanguinato Istanbul provocando la morte di sei persone, la Turchia di Erdogan ha attaccato i curdi in Siria e in Iraq. Li considera responsabili del fatto di sangue, malgrado gli accusati abbiano smentito ogni coinvolgimento. Senza dimenticare che Ahlam Albashir, è questo il nome dell’attentatrice siriana, sarebbe originaria delle aree tra Aleppo e Afrin sotto il controllo di diverse fazioni jihadiste, dati che rendono più credibile un’origine fondamentalista della strage.
Davide Grasso, scrittore, giornalista, ex combattente dell’Ypg (Unità di protezione popolare) chiarisce questo aspetto: “Queste formazioni non hanno mai agito su suolo turco né utilizzato tattiche terroristiche. Sono parte del grande esercito rivoluzionario e interetnico delle Forze siriane democratiche: difendono – sottolinea Grasso – l’unica regione siriana che sia riuscita, a oltre un decennio dalla primavera del 2011, a instaurare una forma di autogoverno autonomo dalla Turchia e dal regime di Assad, l’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est”. Ovvero lo Stato curdo del Rojava, uno degli esempi più avanzati di democrazia in quell’area geografica.
A questo scenario, si affianca quello iraniano. Lo Stato teocratico ha dato il via a una crociata contro il Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) di Abdullah Öcalan, nelle carceri turche dal 1999. Considerata organizzazione terroristica dagli Stati Uniti e dalla Unione europea, storica spina nel fianco dei vari regimi turchi che si sono susseguiti negli ultimi decenni, questa volta è preso di mira anche da Teheran, perché ritenuto responsabile dell’avvio delle rivolte nel Paese sciita. E se è vero che la scintilla che ha dato il via alla grande sommossa delle donne iraniane è stata la morte della giovane curda Mahsa Amini – uccisa in carcere, dove era stata rinchiusa, perché non portava il velo correttamente –, è altrettanto verosimile che quelle donne e quegli uomini, che hanno contribuito alla sconfitta dell’Isis, stiano giocando un ruolo importante nella destabilizzazione del regime degli ayatollah. E rischiano ora di trovarsi in mezzo a un duplice attacco, da parte delle due potenze regionali storicamente avversarie.
Il presidente turco ha dato l’ordine di attaccare il nord dell’Iraq e della Siria, compresa Kobane, protagonista dell’eroica resistenza contro il movimento fondato da Abu Musa’ ab al-Zarqāwi. Decine le vittime provocate dai bombardamenti turchi, che non hanno risparmiato il Covid Hospital della città, oltre a un campo profughi di Aleppo, Sheeba, dove trovano ospitalità i rifugiati di Afrin, prima controllata dai curdi dell’Ypg e, dopo un’invasione turca nel 2018, finita sotto il controllo dell’Esercito siriano libero, oppositore del presidente siriano Assad. Colpiti anche diversi militari dell’esercito siriano.
“Se Dio vuole, presto li eradicheremo con i nostri carri armati, la nostra artiglieria e i nostri soldati” – ha tuonato l’autocrate turco, che ha preso a pretesto l’attentato per attaccare e invadere i territori siriani, con l’obiettivo di creare una zona cuscinetto a maggioranza arabo-sunnita nel nord della Siria e dell’Iraq. Area destinata, secondo i piani di Erdogan, ad accogliere i profughi siriani. Con tale scenario, le conseguenze sul piano geopolitico sarebbero imprevedibili ma, a conti fatti, poco allarmanti per Russia e Stati Uniti. È vero che Mosca è stretta alleata di Iran e Siria, mentre gli americani sostengono fin dalle primavere arabe del 2011 le Forze democratiche siriane, le quali però non sono proprio la prima preoccupazione della Casa Bianca, in ben altre faccende affaccendata. Inoltre Erdogan (vedi il ruolo che sta cercando di giocare nel conflitto russo-ucraino) è comunque un interlocutore importante per tutti, Europa compresa, se si considera la gestione dell’immigrazione proveniente da quella che una volta si chiamava Asia minore.
Dobbiamo altresì ricordare il ruolo dirimente di Ankara nella richiesta di Svezia e Finlandia di entrare nella Nato come difesa dall’aggressività della Russia. Ma Ankara, membro dell’Alleanza atlantica, è disposta a togliere il veto solo se Stoccolma e Helsinki sono pronte a consegnare nelle mani del regime turco alcuni curdi che sarebbero esponenti del Pkk e altre organizzazioni curde. In particolare, il braccio di ferro vede protagonisti il neoeletto premier svedese Ulf Kristersson – e ovviamente Erdogan. Non sarà facile risolvere questo nodo. Il ministro degli Esteri svedese, Tobias Bilsstrom, ha specificato, l’8 novembre scorso in un incontro con Erdogan, che il governo svedese non ha in agenda contatti con il Pkk e con l’ala siriana Ypg. Dal canto suo, secondo il quotidiano turco “Hurriyet”, il governo turco avrebbe ultimamente insistito per la consegna di nove presunti terroristi dalla Svezia e sei dalla Finlandia, ridimensionando così, rispetto all’accordo raggiunto a Madrid, il numero dei curdi da consegnare, ovvero ventuno ricercati, undici legati ai separatisti curdi del Pkk e dieci accusati di aver partecipato al golpe, più altri dodici che vivono in Finlandia.
Tornando al confronto militare nell’area, non va meglio per i curdi sul fronte iraniano, dove i Guardiani della rivoluzione stanno attaccando i guerriglieri situati nel nord dell’Iraq. Malgrado a Baghdad ci sia un governo sciita, vicino a Teheran, gli iraniani hanno ammonito il presidente Abdul Latif Rashid: “O disarmate i curdi oppure organizzeremo operazioni di terra”, avrebbe minacciato il Paese degli ayatollah. L’esercito dello Stato teocratico ha lanciato così un’offensiva nel Rojhelat curdo, nelle stesse ore in cui la Turchia bombardava il Rojava. “L’Iran – ci informa Grasso – ha fatto trapelare l’ipotesi di un’invasione delle regioni curde d’Iraq, dove l’esercito turco è impegnato da anni, senza successo, in una operazione d’aria e di terra contro il Pkk, da cui Kongra Star e Kodar (analogo organo misto curdo-iraniano) hanno mutuato la loro idea di rivoluzione femminile. Una cooperazione tra Iran e Turchia – conclude l’ex guerrigliero italiano – contro i curdi non stupirebbe: ha già portato alla costruzione concordata di un muro al confine tra i due Paesi per controllare sia i militanti sia i migranti”.
Secondo Djene R. Bajalan – esperto di Medio Oriente e professore associato presso la Missouri State University – “la minoranza curda iraniana costituisce tra l’8 e il 15% della popolazione, e risiede principalmente nelle province dell’Azerbaigian occidentale, del Kurdistan e di Kermanshah, conosciute collettivamente tra i curdi come Rojhalat (Kurdistan orientale). Pur condividendo molte tradizioni con altri iraniani, inclusa la maggioranza persiana dominante, i curdi hanno le loro peculiarità linguistiche, culturali e religiose”. I rapporti tra l’Iran fondamentalista e i curdi hanno conosciuto nel corso del tempo alti e bassi. “Negli anni Novanta e Duemila – sottolinea Bajalan – la resistenza curda in Iran è cresciuta in nuove direzioni. L’elezione del 1997 del candidato presidenziale riformista, Mohammad Khatami, è stata particolarmente significativa. Sul fronte politico – aggiunge lo studioso – l’ascesa di Khatami ha aperto la strada all’elezione dei politici curdi al parlamento nel 2000, anche se l’intervento del Consiglio dei guardiani – un organismo statale incaricato di valutare i potenziali candidati – ha ostacolato questa tendenza nelle elezioni successive. Tuttavia, le organizzazioni della società civile che promuovono la lingua e la cultura curda, nonché quelle impegnate in diverse questioni sociali, dalla violenza domestica all’ambientalismo, hanno continuato a prosperare, anche se spesso ai confini della legalità. Anche la resistenza armata – prosegue Bajalan – è continuata: nel 2004 è stato fondato un nuovo gruppo armato chiamato Kurdistan Free Life Party (Pjak), una propaggine del partito di Öcalan con sede in Turchia”.
Per avere annunciato quanto sta succedendo in queste settimane, nel 2020, un’insegnante di lingua curda, Zahra Mohammadi, è stata schiaffeggiata e condannata a dieci anni di prigione – poi divenuti cinque – sulla base di reati inventati. Che futuro aspetta quei venticinque milioni di curdi che vivono in Turchia, in Iran, in Siria e in Iraq? E soprattutto, quali cambiamenti sono verosimili? Riuscirà il Rojava, unico Stato curdo a oggi in piedi, a reggere l’offensiva delle grandi potenze regionali? E un cambiamento del regime iraniano potrà trasformarsi in un’apertura nei loro confronti? Tutte domande grandi come una casa.
Sicuramente l’Occidente, che prima aveva utilizzato i curdi contro l’Isis, è anche in questo caso affetto da amnesia. Al punto da essere disposto ad abbandonare l’Ypg nella guerra contro i turchi e a consegnare loro i rifugiati politici. O, nella migliore delle ipotesi, a non aiutarli più economicamente e militarmente. Il solito opportunismo occidentale, che aiuta un popolo come gli ucraini perché attaccati da un nemico, ma ne dimentica un altro perché aggredito da un dittatore con il quale bisogna pur parlare, come ebbe a dire uno dei migliori presidenti del Consiglio del Belpaese.