Patria di oltre 450 milioni di esseri umani, molti dei quali figli e nipoti di emigrati italiani (da cui la voluminosa retorica sulla nostra parentela con quella propaggine di estremo Occidente, superaffollata di affettuosi e inscindibili vincoli sentimentali e di sangue), il Sudamerica appare, nondimeno, assai spesso nell’immaginario nostrano una terra più mitica che reale: certamente in modo fuorviante. Da lungo tempo, ormai, fonte di paragoni e suggestioni soprattutto negativi: una convenzionalità attigua al pregiudizio, la cui ripetitività vorrebbe normalizzare una volta per tutte. Così da trasfigurare tragedie e successi, progressi e regressioni in un unico, continuo stereotipo, che però coinvolge nel grottesco in primis gli autori di un simile linguaggio in stato confusionale.
Travagliate esperienze storiche, talvolta di carattere intercontinentale – per esempio il populismo –, estratte dal contesto, e spesso per ciò stesso falsate per ridurle a folclore sudamericano. Difficile dire se sia peggiore il permanente oblio riservato a quanto accade in buona parte dell’Africa e a non pochi, super-popolati Paesi dell’Asia. Ma a giudicare almeno da quanto se ne legge e se ne ascolta, stravolte nelle più che frequenti evocazioni dettate da eccessi di licenza poetica, quando non da franca ignoranza (quelle qui citate sono state pubblicate tutte insieme ad altre ancora nelle ultime due settimane). Sebbene l’informazione specializzata italiana sull’America latina sia invece di buon livello, e quella accademica anche migliore: ma quanti sono i suoi lettori?
Per lo più il movente è di natura eurocentrica (vale a dire: non confondiamoci con “altri” da noi): “Non ci servono gli osservatori elettorali come in Sudamerica …”, ho letto da una stimabilissima firma su uno dei maggiori quotidiani nazionali. Trascurando (lapsus mentis) una circostanza enorme e di strettissima attualità: le elezioni a oggi più contestate del mondo sono nell’America anglosassone e wasp, quelle che hanno portato Joe Biden alla Casa Bianca, e che a negarle legittimità sia Donald Trump solo aggiunge ulteriore inquietudine.
Nondimeno, i giornali italiani continuano da anni a scrivere, minimo una volta a settimana, di “repubblica bananera” in riferimento a un qualche Paese sudamericano. Ignorando che questa locuzione fu coniata nel secolo scorso dallo scrittore statunitense Sydney Porter – O. Henry il suo pseudonimo –, per denunciare il sistema di sfruttamento privato creato dalla compagnia statunitense United Fruit, in Honduras e in mezzo Centro America, grazie all’uso mercenario e repressivo di interi reggimenti dell’esercito colombiano. E non la corruzione politica dei moderni Stati sudamericani, che ovviamente non manca, così come se ne può trovare in abbondanza ai quattro capi del pianeta. Ma il Sudamerica è, a un tempo, noto e sconosciuto: vasto e vario, vicino e lontano, a sufficienza perché pigrizia mentale e superficialità gareggino con la fantasia letteraria per alloggiarvi la leggenda assai più spesso che la verità.
Neppure il sensibile e raffinato Paolo Conte ha potuto trattenersi: “Ahi, Sudamerica”: “Il giorno tropicale era un sudario / davanti ai grattacieli era un sipario…”. Sebbene sappia benissimo che il clima dell’uruguayana Montevideo ricorda forse più Torino che Rio de Janeiro. È stato lo stesso Gabriel García Márquez (nella famosa intervista del 1967 a Mario Vargas Llosa) a spiegare che Cent’anni di solitudine è un romanzo realista. Poiché il realismo magico, a suoavviso, è a tal punto reale da non poter essere descritto se non attraverso un linguaggio interpretativo fantasioso, iperbolico (ma mai caricaturale), che corrisponde alla vera realtà, indicibile per il linguaggio comune (nel senso di convenzionale, riconosciuto).
Quando poi (sempre a un grande giornale) accade di leggere, nella critica letteraria di un romanzo noir, che la vicenda “è ambientata in un Paese sudamericano comunista”, alludendo a Cuba, anche García Márquez, scoraggiato, con ogni probabilità non saprebbe cos’altro aggiungere. E se nell’estremo tentativo di salvare almeno nei casi di non flagrante offesa alla geografia, alla grammatica o al buon senso questa strampalata “creatività” metaforica, si volesse immaginare una sorta di straniamento brechtiano, sarebbe utile tenere conto che tante presunte estraneità e infondate credenze ostacolano seriamente una migliore, necessaria conoscenza reciproca con i sudamericani. Ovunque, il linguaggio che usiamo racconta di noi.