Potevamo fare di più. Ma i soldi non ci sono, la crisi non è passata e la guerra non è finita. E dobbiamo rendere conto (almeno per ora) all’Europa. Ma abbiate fiducia, questo è solo il primo passo. Realizzeremo tutte le promesse cominciando a punire i furbetti del reddito di cittadinanza. Si può sintetizzare così il messaggio lanciato questa mattina (22 novembre) dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e dai suoi più fidati ministri durante la conferenza stampa di presentazione della “manovra 2023”: in totale 35 miliardi di euro, 21 dei quali andranno sotto forma di credito d’imposta alle imprese per affrontare il caro energia e 9 miliardi ad ampliare la platea delle famiglie che potranno usufruire degli aiuti dello Stato nel calmierare le bollette. Niente flat tax incrementale e generalizzata, niente condono tombale (solo provvedimenti camuffati, che vanno però in quella direzione, come ha confermato Salvini), confermato l’innalzamento del tetto del contante a 5mila euro, fine del reddito di cittadinanza. Poco o nulla, se non addirittura qualche taglio mascherato, per scuola e sanità. I governatori delle Regioni hanno già lanciato l’allarme: “Gli ospedali spenderanno 1,7 miliardi in più per l’energia, che si sommano ai circa 4 miliardi per l’emergenza pandemica, ma gli aumenti del governo saranno inferiori. Bisogna evitare disavanzi e piani di rientro”. Intanto, sembra di capire che gli aiuti per il caro benzina dureranno solo tre mesi.
Siamo insomma di fronte a una manovra “mimetica” in tutti i sensi. Da una parte, perché non tocca (anzi sembra incrementare le spese militari, come potremo verificare dal testo ufficiale quando sarà pronto) e, dall’altra, perché indossa abiti da camuffamento. Per non scontentare la fascia di elettori tra gli autonomi, la legge di Bilancio conterrà provvedimenti che favoriscono le partite Iva e i commercianti; mentre la tanto decantata flat tax per tutti i lavoratori viene lasciata nei cassetti per tempi migliori, che probabilmente non arriveranno mai. E questo forse è anche un bene, perché tutti i calcoli degli esperti avevano messo in evidenza il rischio di introdurre ulteriori diseguaglianze con la “tassa piatta”. Da quest’anno, il tetto per la flat tax per le partite Iva sale a 85mila euro.
I trabocchetti della propaganda si nascondono nei dettagli. Uno dei punti forti della comunicazione governativa sulla legge di Bilancio riguarda, per esempio, il “successo” ottenuto con la rivalutazione delle pensioni. Effettivamente, ci sono dei soldi stanziati per questa partita di bilancio; ma, da una parte, si tratta di una misura attesa da anni (ci sono state decine di manifestazioni dei sindacati confederali e di quelli dei pensionati); dall’altra, nasconde un piccolo-grande trabocchetto, che è stato subito svelato dallo Spi, il sindacato dei pensionati della Cgil.
La notizia è semplice e secca: la rivalutazione delle pensioni, in particolare dei trattamenti che superano i 2.000 euro, potrebbe essere inferiore a quanto preannunciato. Il governo Meloni, infatti, sta cercando un modo per finanziare la nuova quota 103. Misura che consentirà di lasciare il lavoro a 62 anni con 41 di contributi e dovrebbe interessare una platea potenziale di 48mila lavoratori, per una spesa di circa 750 milioni. Si tratta, in sostanza, di una perdita media pro-capite di oltre 1.200 euro all’anno per 4,3 milioni di pensionati. Sono questi i primi calcoli effettuati dallo Spi-Cgil del taglio alla rivalutazione delle pensioni sopra quattro volte il trattamento minimo, allo studio del governo. “L’adeguamento delle pensioni al costo della vita – spiegano da via dei Frentani – subirebbe una drastica riduzione, in particolare per quei pensionati che hanno lavorato e versato i contributi per quarant’anni e oltre, e che non percepiscono affatto un assegno alto ma di 1.800 netti al mese. Stiamo sostanzialmente parlando di pensioni di lavoratori dipendenti, frutto di una vita di lavoro, e che ora rischiano di avere una rivalutazione di gran lunga inferiore a quella che dovevano percepire secondo la legge in vigore”.
Peggio dei pensionati staranno ovviamente i poveri. La grande campagna durata mesi contro i presunti furbetti del divano, ha prodotto il risultato voluto dal partito della Lega e da quello dei Fratelli d’Italia. Il reddito di cittadinanza sarà abrogato dal primo gennaio 2024. La linea dura, sostenuta dalla premier Giorgia Meloni, punta a dare un segnale forte di “discontinuità”. Il sostegno ai poveri sopravviverà, al massimo, per un anno, e già nel corso del 2023 non verranno accettate più le domande. Con un provvedimento collegato alla manovra, il governo dovrebbe definire il nuovo sistema. Dal 2024, al posto del reddito, ci saranno due strumenti: uno per la lotta alla povertà, destinato a coloro che non possono lavorare; l’altro per le politiche attive, per le persone occupabili. Sul fronte della previdenza, arriva invece “quota 103”. Significa che, nel 2023, si potrà andare in pensione anticipata con 62 anni di età e 41 di contributi.
Paradossalmente, una manovra impostata in questo modo rende la vita più complicata alle opposizioni. Il segretario del Pd, Enrico Letta e il leader dei 5 Stelle, Giuseppe Conte, chiamano già alla piazza, mentre i sindacati confederali attendono il testo formale per esprimere un giudizio definitivo su una manovra che comunque non piace, perché non risponde alle proposte avanzate nell’incontro a Palazzo Chigi e non risolve i problemi di fondo del Paese. Una manovra che cerca di dare qualche contentino solo a una parte dei ceti medi ma penalizza tutto il lavoro dipendente. Dal terzo polo di Calenda arriva, intanto, l’invito a non cadere nella trappola dell’opposizione per l’opposizione. Non basta la piazza, ci vuole una controproposta. E in queste ore anche in via dell’Astronomia, sede di Confindustria, pare che non ci siano facce allegre, nonostante il fatto che il governo abbia cercato di premiare la parte imprenditoriale del suo elettorato, specie di quello del Nord. Ma dello shock promesso per l’economia nazionale neppure l’ombra.