Un generoso regalo, una mancia e uno scippo diluito nel tempo: volendo tagliare a fette un argomento molto complesso come la legge di Bilancio varata dal governo Meloni e avviata alla discussione parlamentare, si potrebbero sintetizzare così alcune direttrici principali riconoscibili. Manovra un po’ draghiana, in omaggio all’ortodossia filo-imprenditoriale e antisociale del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, un po’ espansiva, con un pacchetto di miliardi, indirizzato però selettivamente soprattutto ad alcune fasce dell’elettorato di centrodestra: per esempio, con le pensioni minime, con quota 103, con i benefici per le partite Iva. Nonostante il recente via libera parlamentare a un nuovo scostamento di bilancio, la difesa dall’assalto dei costi energetici resta limitata ai primi tre mesi dell’anno, per il futuro lo stesso esecutivo prevede di dover mettere in campo nuovi interventi.
Regalo generoso l’allargamento del privilegio fiscale per le partite Iva: con l’allargamento della platea del regime forfettario al 15% fino agli 85mila euro di imponibile – con i beneficiari immuni anche rispetto alle addizionali locali –, si scava ulteriormente la divisione tradizionale fra lavoro dipendente e lavoro autonomo, per il fisco soggetti incomparabili, cittadini di due Stati diversi. Per chi non aderisce al forfettario, c’è la “flat tax incrementale”, che concede uno sconto fiscale alle partite Iva con redditi fino ai 40mila euro per i redditi in crescita di almeno il 5%. È appena il caso di ricordare i dati del 2020 (di fisco ci siamo occupati già in passato, per esempio qui e qui): i redditi da lavoro dipendente e da pensione rappresentano circa l’82% del reddito complessivo dichiarato. E adesso, a parità di reddito medio-alto (prendendo come riferimento gli 85mila euro beneficiari della misura), il salto di aliquota marginale tra dipendenti e autonomi è superiore al 30% in più. Siamo di fronte, quindi, in prospettiva, a una sorta di crescente apartheid fiscale, certamente non creato ex novo dalla manovra governativa ma esasperato rispetto al passato.
La mancia, a giudizio di molti osservatori, è rappresentata dall’intervento sul cuneo fiscale, che andrà a beneficio di una porzione limitata di lavoratori con redditi bassi, e soprattutto non è sufficiente a contrastare l’impatto sempre più duro dell’inflazione, registrata all’11,8% nel mese di ottobre rispetto all’anno precedente. Ma il dato come sempre ha un peso più rilevante sulle fasce sociali più povere, i cui consumi sono difficilmente comprimibili.
È lo scippo, seppur diluito nel tempo, la vera norma-manifesto della legge di bilancio targata Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti. Si tratta dell’annunciato taglio del reddito di cittadinanza, che per gli “occupabili”, cioè i disoccupati non inclusi in altre categorie di fragilità sociale (come i disabili, per esempio), si fermerà all’agosto del 2023, per far posto nel 2024 a un nuovo provvedimento dedicato, nelle previsioni, alla carità di Stato per le sole fasce più marginali. Norma-manifesto che il quotidiano “Libero”, nella sua festosa prima pagina di martedì 22 novembre, ha celebrato con il sobrio titolo “Buon lavoro fannulloni”. La presidente del Consiglio ha negato preoccupazioni per le proteste annunciate sul reddito di cittadinanza, ma non crediamo di essere profeti di sventura se immaginiamo che, se quei “fannulloni” scenderanno in piazza e proveranno a suscitare un movimento di protesta sociale, saranno accolti con una certa decisione e con i peggiori epiteti (“criminali”, “teppisti” o peggio) dalla stampa militante.
Lo scippo, occorre ricordarlo, è anche un regalo: a quel mondo delle imprese, sempre legato da una forte solidarietà di classe al suo interno, che fa sì che si manifesti un sentimento comune, da anni, ostile proprio al reddito di cittadinanza, fra le grandi aziende che (in genere) rispettano leggi e contratti, e quelle medio-piccole più disinvolte, che invece puntano allo sfruttamento dei lavoratori ai limiti della legge e talvolta ben oltre i suoi confini. L’ostilità al reddito è dovuta, in gran parte, non alla sua funzione di lotta alla povertà, ma ai suoi effetti collaterali, perché un sussidio minimo di Stato rende più debole il ricatto occupazionale, funziona come una sorta di salario minimo indiretto, ed è questo il motore della incessante campagna politica e di stampa che lo ha messo nel mirino. Quello che conta, quindi, quello che più indica la strada più probabile dei prossimi passaggi dell’azione di governo, è la parola che Giorgia Meloni ha pronunciato nella conferenza stampa, nel rivendicare le sue scelte: la parola “visione”. Dove servirebbe larghezza degli interventi per una economia in affanno, palazzo Chigi si limita a spendere per dimostrare ai suoi elettori che è fedele alle sue promesse, anche quando non le può realmente mantenere, se non in piccola parte. E il colpo al reddito di cittadinanza, alla dignità e alla libertà dei lavoratori poveri, di quelli meno qualificati, è il segnale più forte di quella visione e della volontà di mantenere quelle promesse.
Un suggerimento che arriva da questa legge di Bilancio riguarda la teorica capacità delle opposizioni di rispondere alla sfida del destra-centro. Ci sarà tempo per esaminare nel dettaglio il testo che il parlamento dovrà approvare, ma al tema della necessità di riattivare il conflitto sociale (difficile che accada grazie a chi dice che il lavoro “è l’impresa”), andrà necessariamente legato il tema della giustizia fiscale. Il discorso pubblico andrebbe ricostruito su basi nuove: andrebbe smontato il luogo comune secondo il quale abbassare la pressione fiscale è sempre un fatto positivo, indipendentemente da quando, come e a favore di chi lo si fa. Senza questo, l’opposizione al governo Meloni rischia di perdersi nei mille rivoli dei provvedimenti-bandierina, mentre il destra-centro ricompatta i suoi elettori con un mix di messaggi simbolici (sui migranti, per esempio), di austerità (per i più poveri) e di regalie per i ceti medio-alti che ne alimentano i successi elettorali.