Anche i ricchi piangono, verrebbe da dire, leggendo i dati del mercato digitale. Dalla ripresa, dopo l’estate, le grandi piattaforme digitali sono in affanno. Stiamo parlando di dati relativi, e comunque di tendenze più che di crisi assoluta, come le misuriamo nel mondo materiale. Ma certo vedere i titoli di Google, Facebook, Amazon ballare sull’orlo del rosso, con scivolate che in certe giornate, fra fine ottobre e i primi di novembre, sono arrivate a segnare un meno 4-6% fa scalpore.
Stiamo parlando di realtà economiche, come i campioni della Silicon Valley, che – da almeno tre lustri – segnano un incremento inesauribile, trimestre dopo trimestre. Proprio il business model su cui si basa l’intera economia digitale e, più ancora, quella finanziaria, basato su quel perverso gioco di aspettative e promesse che spinge poi, al minimo segno recessivo, o comunque di delusione rispetto alle attese, ad amplificare esponenzialmente i ribassi.
Pensiamo che il gruppo Alphabet (comprendente, fra l’altro, i giganti Google e YouTube), oggi il principale contenitore di pubblicità del mondo, ha registrato – nell’ultimo trimestre, il terzo del 2022 – un incremento di fatturato complessivo del 6 %, arrivando a incassare circa 69,1 miliardi: cifre che di per sé farebbero la felicità dell’intero listino di borsa di Wall Street. Eppure, le azioni di Alphabet sono cadute del 7%, perché gli investitori si attendevano – secondo quello spericolato meccanismo di calcolo e promesse – un risultato record del +9%. La stessa dinamica ha colpito Amazon, che pur rimanendo nel mondo del segno +, ha comunque denunciato un calo sostanziale dei valori di borsa. Questo dato parla esplicitamente di quale sia la dinamica che sorregge in quota questi dirigibili dell’economia virtuale: il profitto a breve. Google, Amazon, Apple non sono aziende che producono oggetti o servizi: sono brand che assicurano profitto, tramite la commercializzazione dei propri prodotti.
Questo capitalismo delle aspettative si è poi ibridato con un mercato dominato dai monopoli. Paradossalmente, proprio il segmento dell’economia che nasceva dalla più sfrenata e assillante competizione, quale era quello delle start up digitali, si è poi bloccato in base a una mera routine di gestione della rendita di posizione: chi arrivava prima ad accumulare volumi di utenti e di fatturato occupava tutto il mercato e bloccava l’accesso ai nuovi entranti. Questo fenomeno ha rallentato considerevolmente il processo innovativo, spingendo i grandi centri tecnologici a occuparsi più della gestione delle proprie immense plusvalenze finanziarie che del turn over tecnologico. Si calcola che i vertici di Google e Facebook spendano circa il 60% del proprio tempo a seguire gli spostamenti dei capitali accumulati all’estero: cercando, così, la più vantaggiosa posizione ai fini fiscali e la maggiore resa finanziaria piuttosto che occuparsi di tutto il resto.
La stagnazione che ha prodotto questi cali di valore ha spinto i samurai digitali a comportarsi come i più tradizionali padroni delle ferriere: licenziando. In poche settimane, il complesso delle filiere delle imprese ad alta tecnologia ha licenziato circa sessantamila persone, più o meno il 10 % di quei sei milioni di addetti del sistema digitale che si contano negli Stati Uniti. La crisi ha fatto anche affiorare gli istinti peggiori di quella leva di top manager che veniva decantata come fatta da cavalieri senza macchia e senza paura, paladini di un regno dell’innocenza e del benessere. Mark Zuckerberg, alle prese con la sua confusa e ancora indefinita prospettiva di Metaverso (vedi qui), ha diffuso nel suo gruppo una lettera in cui accusa i collaboratori di bassa produttività e programma almeno undicimila licenziamenti. Elon Musk, appena entrato nei suoi nuovi uffici di proprietario di Twitter, ha cacciato, con l’intero vertice, almeno la metà dei settemila dipendenti, per annunciare poi un cambio di clima e di regime nell’azienda, con orari e cartellini sempre più fiscalmente gestiti dalla gerarchia interna. Almeno altri cinquecento, fra dirigenti e quadri, hanno abbandonato subito la barca che sembra alla deriva.
L’orizzonte del mercato si è poi fatto ancora più fosco con la caduta delle criptovalute. Solo la piattaforma Ftx, una delle più diffuse, sulla quale si commercializzavano tutte le principali divise virtuali, ha già contabilizzato una perdita complessiva, dei suoi circa un milione e centomila clienti, di almeno dieci miliardi di dollari. Anche in questo caso, siamo dinanzi a un battito d’ali di una farfalla a Hong Kong che provoca un uragano negli Usa. È bastato che uno dei concorrenti di Ftx, come la piattaforma Binance, cominciasse a vendere le azioni del suo avversario, per far crollare l’intero settore.
Ma quali sono le ragioni di questa gelata che sembra porre interrogativi epocali su quello che era descritto come il nuovo rinascimento del capitalismo? Secondo gli analisti, due sono le ragioni di questo avvitamento: il calo della pubblicità, che è il vero motore dell’economia immateriale, basata sulle relazioni punto a punto, di cui il settore dell’alta tecnologia è oggi il principale motore, e la rottura della rendita di posizione dei monopoli. In entrambi i casi, si tratta di una mutazione delle relazioni socio-commerciali che caratterizzano l’intero sistema digitale.
La pubblicità nelle piattaforme tecnologiche non è un semplice mercato dove gli inserzionisti comprano l’attenzione di un ipotetico pubblico. Nell’infosfera, per usare la terminologia di Luciano Floridi, la promozione commerciale è il risultato di un’infinità di microcontratti di comunicazione, in cui una fonte, nel caso pubblicitario appunto l’inserzionista, entra in possesso di informazioni e dati su una platea di utenti della piattaforma alla quale invia un flusso di comunicazione che dovrebbe orientarli verso un certo prodotto o servizio. In questa logica, cade l’alea tipica della pubblicità – so che la metà del mio investimento è disperso, ma non so quale delle due metà devo eliminare – e rimane un patrimonio di profilazione che permette all’inserzionista di giostrare a colpo sicuro, individuando con estrema precisione il target dei suoi acquirenti.
Se registriamo una contrazione dell’investimento pubblicitario, dobbiamo constatare che l’inserzionista dubita della bontà dei dati della piattaforma, in base non tanto all’incapacità della stessa di estrarli – ormai i software sono standardizzati –, quanto piuttosto a causa della distorsione del rapporto fra l’utente e i sistemi editoriali che la piattaforma usa per ricavare dal suo servizio le informazioni più sofisticate e individuali dei propri utenti. Si può dire che si sia incrinato, in molti casi, il patto sociale, quella mutua complicità che permette a Facebook o a Google di profilare sfacciatamente i propri milioni di utenti, in cambio di un servizio relazionale.
Ora, se questo patto si allenta, o addirittura diventa conflittuale, salta l’economia digitale. Lo stesso vale per la perdita dello status di monopolista: se Tik Tok ruba mercato a Facebook, oppure le nuove piattaforme video sottraggono a YouTube quel flusso inarrestabile di centinaia di migliaia di video al giorno, ciò vuol dire che salta proprio quella forma di identificazione che porta ciascuno a scegliere un ambiente digitale per affinità e non solo per convenienza. È questa la novità che si annuncia sulla scena.
Sarebbe una vigilia pre-rivoluzionaria, se fossimo ancora in una logica liberista, dominata dalla contraddizione capitale/lavoro. In questo caso, come ben ricordiamo, il mercato poggia su sistemi economici stabili, consolidati da tecniche e ragioni di scambio consolidate, in cui la gerarchia fra offerta e domanda è guidata dalla proprietà, per cui il padrone della fabbrica è il titolare della linea di produzione e i lavoratori, nel migliore dei casi, sono la controparte a valle del procedimento manifatturiero. Una crisi segnata dalla caduta tendenziale del saggio di profitto – direbbero i maestri del Novecento –, con una dispersione di valore e uno scompaginamento degli assetti produttivi, che porterebbero a una caduta drammatica del mercato, come nel 1929, o a una svolta conflittuale come nella Germania di Weimar.
Oggi invece la turbolenza che allenta la tesaurizzazione degli algoritmi, e moltiplica i soggetti che entrano in campo, ci dice che si sta ponendo con forza il tema di una ridefinizione di un nuovo patto sociale ed economico, in cui il capitalismo della sorveglianza, come lo definisce Shoshanna Zubof, perde l’egemonia – più che il controllo proprio –, aprendo così uno spazio in cui la politica potrebbe giocare un ruolo da protagonista. Si tratterebbe, infatti, di reindirizzare la struttura verticale del sistema relazionale, che oggi i padroni delle piattaforme finalizzano all’estrazione di valore istantaneo, verso una nuova forma relazionale, in cui la rete non sia mercato delle singole attenzioni e dei dati che ognuno di noi deposita, ma motore di sistemi locali, in cui gli utenti abbiano l’accesso alla riprogrammazione degli algoritmi.
Si tratta allora di ripensare l’intero sistema economico, dai circuiti energetici, agli apparati sanitari e assistenziali, dalla pubblica amministrazione alla formazione scolastica, fino al decentramento dei sistemi di produzione, alla luce di una potenza di connessione punto a punto che potrebbe garantire efficienza e soddisfazione nello scambio mutualistico di ognuno di noi con il suo interlocutore. Questa era infatti l’ispirazione delle prime reti locali, basate sul principio del greed, ossia di piccole griglie relazionali in cui ci si scambia energia, informazione e istruzioni, al fine di alimentare forme cooperativistiche di lavoro e servizi.
Paradossalmente, nel momento apparentemente più disarmante per una sinistra critica, riappare una vecchia talpa digitale.