Lo avevamo scritto in occasione della Cop27 (vedi qui), il vertice sull’ambiente in corso al Cairo. Nel mondo del Ventunesimo secolo i diritti umani e ambientali sono violati quotidianamente e la battaglia per la loro tutela diventa di fatto la stessa, oggi più di ieri. È ciò che succede in Qatar, piccolo e ricchissimo Paese del Golfo Persico, dove, nel corso di un decennio, sono stati costruiti ben otto stadi che poi verranno smantellati. Partita d’inizio il 20 novembre prossimo, allo stadio “Al-Khor”, Qatar-Ecuador.
Tutto prende il via nel 2010,quando Doha ha conquistato il diritto a ospitare la Coppa del mondo, battendo le offerte di Stati Uniti, Corea del Sud, Giappone e Australia. Una richiesta fortemente sostenuta dall’allora presidente della Fifa, Sepp Blatter, il quale ora, a distanza di dodici anni, in una intervista rilasciata al quotidiano svizzero “Tages Anzeiger”, definisce quella scelta “pessima” per varie ragioni. Obbligatorio soffermarsi, a questo punto, sui protagonisti di quella decisione avvenuta a fior di mazzette e favori di vario genere.
Il “Guardian”, circa un mese fa, ha pubblicato un elenco – ripreso dall’agenzia stampa Dire – che chiarisce il contesto in cui è maturata la decisione presa da una giuria composta, tra i tanti, da ex calciatori come Beckham, Beckenbauer e Platini. Ebbene, ventinove di questi sono stati accusati e condannati per aver intascato consistenti somme dal Qatar, in cambio del via libera ai mondiali. Alla votazione erano presenti politici come Vladimir Putin, Boris Johnson e David Cameron. In questo modo, il piccolo emirato è riuscito a far dimenticare le gravi carenze in termini di violazioni dei diritti degli oppositori politici e delle donne, lo sfruttamento dei lavoratori, costretti a operare in condizioni terribili, viste anche le alte temperature che contraddistinguono quei luoghi, e il grave impatto ambientale determinato dal condizionamento necessario ad abbassare la temperatura degli stadi per poter giocare. Una situazione che ricorda i mondiali ospitati dall’Argentina dei militari nel 1978, quando anche l’Italia partecipò alla competizione sportiva.
La maggioranza degli operai impegnati nella costruzione delle strutture sportive sono arrivati dall’India, dal Bangladesh, dal Pakistan, dallo Sri Lanka e dal Nepal. Come se non bastasse, per lavorare in questo inferno, i migranti sono costretti a pagare miliardi di dollari. Ancora il “Guardian” segnala che l’ammontare complessivo va da un miliardo e mezzo di dollari a due miliardi. Solo i nepalesi hanno tirato fuori circa quattrocento milioni in quattro anni. “È probabile – scrive il quotidiano britannico – che il costo totale sostenuto dalla forza lavoro migrante a basso salario del Qatar sia molto più alto, perché anche i lavoratori di altri Paesi dell’Asia meridionale e dell’Africa pagano tasse molto elevate. Dei due milioni di lavoratori circa un terzo proviene dai Paesi più poveri, come il Nepal e il Bangladesh”. Considerando che devono pagare commissioni da tremila a quattromila dollari, e guadagnano fino a 275 dollari al mese “devono lavorare per almeno un anno solo per pagare le tasse di assunzione” – scrive sempre il “Guardian”.
Amnesty International denuncia dal canto suo come i lavoratori “siano costretti a lavorare un numero di ore eccessive e viene impedito loro di cambiare lavoro. È inoltre molto difficile per loro ottenere giustizia o risarcimenti. Non possono aderire ai sindacati, quindi non possono lottare collettivamente per migliori condizioni di lavoro”. Aggiungiamo che in caso di morte, evento purtroppo molto frequente tra gli operai, i familiari restano all’oscuro di tutto, e dunque non riescono ad avere alcun risarcimento. Per ammorbidire queste gravi carenze, sono state introdotte prime misure innovative, come il salario minimo mensile, assolutamente insufficienti però a modificare una condizione che avrebbe bisogno di ben altri provvedimenti per essere migliorata.
L’altro tema scottante riguarda il rispetto dei diritti Lgbt. Per Alfredo Facchini, scrittore e giornalista, “il tema dei diritti è un altro capo d’accusa. Sul nostro pianeta ci sono 69 Paesi in cui l’omosessualità è del tutto vietata, undici dei quali possono applicare la pena di morte. Il Qatar – aggiunge Facchini – è uno di quei 69 Paesi in cui le relazioni tra persone dello stesso sesso sono assolutamente vietate e possono portare a una detenzione di sette anni”. Già l’emiro del Qatar, Tamim bin Hamad Al Thani, su questo tema era stato chiaro: “Ci aspettiamo che le persone rispettino la nostra cultura”. Dal canto suo, l’ambasciatore dei mondiali, Khalid Salman, ha ricordato come in Qatar l’omosessualità “è proibita, ed è un danno mentale”.
Dopo aver consentito di ospitare i mondiali a questo Paese che, come altri in quell’area, dovrebbe essere messo al bando dal consesso internazionale, diventa scontato nel mondo del calcio assecondare le richieste dell’emirato, il quale ha invitato tutti gli ospiti stranieri a mantenere un atteggiamento consono alle abitudini del luogo. La Fifa ha chiesto ai giocatori di non manifestare le proprie idee politiche; ma i capitani di Inghilterra, Germania, Olanda e Francia hanno già detto che indosseranno una fascia che ricorda la bandiera arcobaleno Lgbt. Anche i giocatori della nazionale danese indosseranno una maglia con su scritto “diritti umani per tutti”.
Pesante anche la vita delle donne. Malgrado, rispetto ai vicini Paesi del Golfo, abbiano maggiori possibilità di accesso all’università, restano di fatto molto dipendenti dal potere degli uomini che sono loro più vicini: padre, marito, fratello, nonno o zio. Devono chiedere il permesso per sposarsi, studiare all’estero, lavorare nell’amministrazione pubblica, viaggiare all’estero, se hanno meno di 25 anni, e accedere ai servizi di salute riproduttiva. In caso di divorzio, sono fortemente penalizzate economicamente e non sufficientemente protette da violenza domestica e sessuale.
Non va meglio per ciò che riguarda la libertà d’espressione. Malcolm Bidali, avvocato e attivista per i diritti dei lavoratori migranti, originario del Kenya, “è stato sottoposto – denuncia Amnesty – a sparizione forzata e poi detenuto in isolamento per un mese solo per aver rivelato le sofferenze patite dai suoi colleghi”. Inoltre – denuncia sempre l’associazione umanitaria – “c’è poco spazio per l’informazione indipendente. La libertà di stampa è limitata da crescenti vincoli imposti agli organi d’informazione, come il divieto di girare riprese in edifici governativi, ospedali, università, alloggi per lavoratori migranti e abitazioni private”.
Viste queste premesse, è difficile pensare a una compiuta democrazia interna. “Il 2 dicembre 2021 – dice Eleonora Ardemagni, esperta di Yemen, monarchie del Golfo e forze militari arabe, ricercatrice presso l’Istituto per gli studi di politica Internazionale (Ispi) – per la prima volta nella storia, i qatarini hanno eletto parte (30 su 45 seggi) dei membri del Consiglio della Shura (“consultazione” in arabo). I restanti 15 rappresentanti vengono nominati dall’emiro. Le elezioni – prosegue Ardemagni – introdotte nel 2003 con la Costituzione, fin qui mai organizzate, hanno registrato un’affluenza del 63,5%. Sono stati 233 i candidati presentatisi nei 30 distretti disegnati dalla discussa legge elettorale introdotta nell’agosto 2021”.
Gli aventi diritto al voto sono i qatarini appartenenti a famiglie presenti nel Paese da prima del 1930, con una conseguente riduzione dei votanti: solo trecentomila su tre milioni di abitanti. Aggiungiamo che nel Qatar, come del resto in tutti i Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo, non si possono costituire partiti politici: dunque i candidati al Consiglio della Shura hanno corso da indipendenti. Sul piano geopolitico si va rafforzando il legame tra il regime qatarino e gli Stati Uniti. Il piccolo emirato si muove all’interno di uno scacchiere animato da attori regionali, come Iran e Turchia, e internazionali con Usa, Cina, India e Russia. Doha ha preferito rafforzare i propri legami con Washington, a differenza dell’Arabia saudita che sta costruendo missili con l’aiuto di Pechino.
Tutto questo dopo la revoca, nel 2021, dell’embargo contro Doha – accusata di finanziare l’estremismo islamico – messo in atto nel 2017 da Arabia saudita, Emirati arabi uniti, Bahrein ed Egitto. Una decisione che aveva spinto il Qatar ad avvicinarsi all’Iran e alla Turchia. Ora le buone relazioni con Washington dovrebbero mutare questo quadro. Un complicato intreccio, fatto da interessi geopolitici ed economici, all’interno dei quali non c’è spazio per il rispetto della persona in nessuna delle sue sfaccettature.