Come sono andate queste elezioni di midterm? Quale dei due principali partiti controllerà il Congresso? Ancora non lo sappiamo e non lo sapremo per diversi giorni, o forse settimane. Certo, da come si erano messe le cose sarebbe potuto andare molto peggio per i democratici. I sondaggi, a livello nazionale, li davano quattro punti sotto ai repubblicani; c’era poi la considerazione “storica” che il partito del presidente, in genere, perde sempre nelle elezioni di midterm; c’era il fatto che il gradimento nei confronti di Joe Biden era ai minimi dall’inizio della sua presidenza e l’altro, speculare, di un attivissimo Donald Trump, che per tutta la campagna elettorale aveva giocato la parte di kingmaker, distribuendo benedizioni e anatemi nei confronti dei candidati repubblicani in base alla fedeltà che gli dichiaravano.
E invece non è andata poi così male. Non conosciamo i risultati finali, ma sicuramente non c’è stata “l’ondata rossa” (repubblicana) che i democratici temevano, paragonabile a quella che sommerse Barack Obama nelle elezioni di midterm del 2010. Al Senato i democratici hanno tenuto bene e perfino strappato un seggio cruciale (quello della Pennsylvania) ai repubblicani. Adesso, giovedì 10 novembre (mattina), i due partiti sono alla pari: 48 a 48. Tutto si giocherà su chi vincerà i tre Stati ancora da assegnare: Nevada, Arizona e Georgia. (Ce n’è un quarto, l’Alaska, ma lì i due contendenti sono entrambi repubblicani). Il Nevada dovrebbe andare ai repubblicani, l’Arizona ai democratici, mentre per la Georgia lo si saprà soltanto dopo il ballottaggio del 6 dicembre prossimo – esattamente come due anni fa! Se i democratici conquisteranno anche la Georgia, si tornerà alla situazione attuale di 50 a 50 e, grazie al voto della vicepresidente Kamala Harris, conserverebbero la maggioranza.
Alla Camera al momento lo scrutinio dà in vantaggio i repubblicani di una decina di seggi, ma ce ne sono ancora 39 da assegnare e – seppure si preveda che raggiungano la maggioranza – non sarà di molto superiore a quella di cui godono attualmente i democratici. Una vittoria, certo, ma non travolgente e, soprattutto, una delusione per chi si aspettava molto di più. Mettendo insieme Senato, Camera e i governatori (dove i democratici sono andati meglio del previsto), quasi una sconfitta per i repubblicani.
Già è iniziato il dibattito nel Partito repubblicano e i regolamenti di conti in vista delle elezioni presidenziali, che ci saranno tra due anni. I trecento e passa candidati appoggiati da Trump non sono andati male, ma peggio del previsto. In svariate competizioni in tutto il Paese, gli elettori repubblicani hanno mostrato di non gradire il loro estremismo votando obtorto collo per il candidato democratico. Trump, che aveva già organizzato un megaparty per la vittoria nella sua pacchiana tenuta di Mar-a-Lago, è stato insolitamente silenzioso: niente discorsi e solo qualche cauta dichiarazione. Ci si aspettava che in quell’occasione avrebbe annunciato la sua candidatura alla presidenza nel 2024, ma a questo punto altri candidati alternativi (come Ron De Santis riconfermato governatore della Florida) si sentiranno incoraggiati a farsi avanti senza temere i fulmini del capo. Insomma, non sono pochi a pensare che se i repubblicani non hanno mietuto i successi che speravano sia stato a causa di Trump e del suo estremismo.
Mentre attendiamo di conoscere i risultati definitivi, non solo del voto, ma anche dell’affluenza, alcune considerazioni di contorno, che danno la misura dello stato non buono del sistema politico-elettorale americano.
I soldi. Questa è stata la campagna di midterm più costosa di sempre: diciassette miliardi di dollari – un aumento del 32% rispetto alla tornata del 2018 –, di cui nove miliardi per le cariche federali (senatori e deputati) e il resto per le migliaia di candidati a livello statale (governatori, membri delle assemblee legislative, segretari di Stato, ecc.). I dati sono parziali, perché si riferiscono ai media tradizionali e alle spese organizzative, e non comprendono quelle sostenute per i social media e in genere internet. Una parte consistente di questa somma, due miliardi di dollari, è andata alle campagne senatoriali nei sei degli Stati più critici, che in effetti sono quelli intorno ai quali si sta giocando la maggioranza al senato. Una corsa senatoriale, in ognuno di questi Stati, è costata la bella somma di trecento milioni di dollari, mentre per un seggio alla Camera sono bastati una decina di milioni (anche qui con svariate eccezioni molto superiori).
Da dove vengono tutti questi soldi? Solo in piccola parte dalle decine o centinaia di migliaia di elettori e simpatizzanti. I contributi elettorali rispecchiano la concentrazione della ricchezza nel Paese: il 40% delle donazioni proviene dall’1% dei donatori più ricchi. Si tratta di poche decine di miliardari, ciascuno dei quali ha “investito” in questo o quel candidato da qualche milione a un miliardo di dollari. Democratici e repubblicani hanno entrambi i loro donatori miliardari, ma i repubblicani ne hanno molti di più. Si tratta di grandi imprese industriali e finanziarie, banche, case farmaceutiche, fabbriche di armamenti, aziende tecnologiche, che di fatto con questi soldi si comprano un senatore o un deputato o, come minimo, se ne assicurano il favore in caso di bisogno.
Dopo una molto controversa sentenza della Corte suprema (Citizens United del 2010), il tutto avviene creando dei “super-PAC” (Political Action Committee) che possono ricevere denaro anche in forma anonima, attraverso un sistema di scatole cinesi che non consente di risalire al “mandante”. Il problema del finanziamento delle campagne elettorali, con tutte le distorsioni che provoca sul sistema democratico, esiste da sempre negli Stati Uniti (e non solo). La presidenza Biden aveva provato a porvi un freno, a introdurre trasparenza con una legge (il John Lewis Act), approvata dalla Camera ma bloccata al Senato dall’ostruzionismo repubblicano.
Il gerrymandering. Se ne parla spesso, ma non ci si rende conto della effettiva gravità del fenomeno. Ogni dieci anni, a seguito del censimento della popolazione, i singoli Stati possono ridisegnare i collegi elettorali per tenere conto dei cambiamenti nella popolazione. In realtà, lo fanno per ben altri motivi. Attraverso un disegno accorto dei singoli collegi (distretti), che finisce col somigliare al corpo tortuoso di una salamandra, possono isolare determinate categorie di elettori in base al partito di appartenenza o alla razza, favorendo così il proprio partito. Lo fanno sia i democratici sia i repubblicani, ma questi ultimi molto di più dal momento che controllano completamente un numero molto maggiore di assemblee degli Stati cui è demandata la definizione dei distretti.
Il risultato è che quasi mai il voto ricevuto da un partito, a livello statale, corrisponde ai collegi che gli vengono attribuiti. In una dozzina di Stati circa – sono i casi più eclatanti, ma la distorsione è pervasiva –, in cui i due partiti sono quasi alla pari, uno dei due riceve più del doppio dei seggi dell’altro e – poiché la maggior parte degli Stati è controllata dai repubblicani – sono loro a beneficiarne. Per esempio, nel Wisconsin, dove i democratici avevano nel 2018 la maggioranza del voto popolare, hanno ottenuto tre seggi contro i cinque dei repubblicani; nella Carolina del Nord, dove i due partiti sono quasi alla pari, i repubblicani hanno nove seggi e i democratici tre. Questo è avvenuto nel 2018 e, secondo vari analisti indipendenti, il redistricting del 2022 ha ulteriormente peggiorato la situazione a vantaggio dei repubblicani. Anche in questo caso, il John Lewis Act avrebbe dovuto rimediare a questa scandalosa alterazione del principio “una persona un voto”, ma non se ne è fatto nulla.
Le donne. Infine, una nota positiva. Queste elezioni hanno visto un numero di donne candidate alle varie cariche in netto aumento rispetto al passato: più della metà del totale, con i democratici che ne hanno candidate di gran lunga di più dei repubblicani (in un rapporto di due a uno). Molte di loro sono già state elette, come Kathy Hochul, prima governatrice dello stato di New York, o Maura Healey, la prima donna dichiaratamente lesbica a governatrice del Massachusetts, o Gretchen Whitmer, riconfermata governatrice del Michigan.
Questo protagonismo femminile è anche connesso alla questione dell’aborto. Vedremo, quando ci saranno i dati, quante donne in più siano state spinte ad andare a votare dalla sentenza della Corte suprema, che nel giugno scorso ha cancellato il diritto di aborto dalla Costituzione federale. Ma certamente la questione della libertà delle decisioni sul proprio corpo ha motivato molte donne ad approvare in tre Stati – California, Vermont e Michigan – altrettanti referendum popolari per inserire il diritto di aborto nella Costituzione dello Stato. Già in primavera gli elettori e le elettrici del Kansas, uno Stato a forte maggioranza repubblicana, avevano votato contro l’introduzione per legge del divieto di aborto; e in altri due Stati – Kentucky e Montana – la materia è oggetto di altrettanti referendum, di cui non si conoscono ancora i risultati, ma in cui i sostenitori della libera scelta sarebbero in vantaggio.
Insomma, queste elezioni non sono andate bene per i democratici, ma potevano andare peggio. Soprattutto, potranno andare meglio la prossima volta, se saranno in grado di correggere le storture più gravi che minacciano la democrazia americana e, ancor di più, se sapranno fare leva sull’energia (e il buon senso) delle molte donne che in questa tornata li hanno sostenuti.