Promosso dal presidente Bolsonaro, il boom del commercio delle armi in Brasile suscitava da tempo allarme, ed è stato un tema centrale nell’accesa campagna elettorale. C’erano i devoti del “non allarmiamoci per niente…”. Ma l’allarmismo è una perversione della ragionevolezza; e gli uccelli del malaugurio un’astrazione superstiziosa, retaggio dell’universo magico-primitivo. In termini assai più coloriti, è questo il senso dei commenti fatti dalla squadra scelta di poliziotti coinvolti nella pazzesca battaglia (con tre feriti) scatenata alcune notti addietro a Rio de Janeiro dal notissimo ex deputato di estrema destra Roberto Jefferson, 69 anni, amico personale e alleato politico di Bolsonaro. Finito in carcere per intimidazioni, oltraggio e minacce ai magistrati della Corte suprema. Si è aggiunto il tentato omicidio. Era già agli arresti domiciliari.
“Ogni cittadino dovrebbe comprare un fucile!”: potrebbe suonare come un sarcasmo alla Woody Allen o come una pubblicità della potentissima National Rifle Association statunitense; invece è l’invito, più volte rivolto ultimamente ai brasiliani, da un sorridente Bolsonaro, che del gesto di armare il revolver,sollevando indice e pollice della mano destra, ha fatto il saluto abituale degli incontri elettorali. È il suo modo di dare sicurezza ai cittadini. L’anno scorso ha emanato tre decreti, che hanno liberalizzato l’acquisto di armi da parte di privati i quali, se cacciatori dichiarati o tiratori amatoriali, sono liberi di detenere decine di fucili e pistole con relative munizioni anche di grande calibro. Basta una “ragionevole motivazione”. Nei quattro anni del suo mandato presidenziale (2018-2022), il Foro brasileiro da segurança publica ha registrato un incremento del 473% di armi in mano a privati. I brasiliani hanno in casa all’incirca quattro milioni e mezzo di armi. Global Peace Index classifica il Brasile al centosedicesimo posto tra i 163 Paesi con il più alto indice di violenza privata.
Avevo incontrato Roberto Jefferson molti anni fa, era già un protagonista tra i più controversi della scena politica di Brasilia. Vale la pena parlarne, perché è un personaggio emblematico di una certa politica e aiuta a spiegarla. Conservatore di formazione, animoso per temperamento, con una forte idea di sé, disinvolto ed estremamente suscettibile, nei primi Novanta del secolo scorso si era fatto paladino di Fernando Collor: l’allora capo di Stato accusato di corruzione, costretto infine a dimettersi per sfuggire all’impeachment. Ed è ancora lui che una decina d’anni dopo ha fatto esplodere lo scandalo del mensalao, cioè dei voti comprati in parlamento per far passare le leggi. Jefferson finì in carcere per corruzione e riciclaggio. Risultò compromesso il prestigio del Pt, e vulnerato anche quello di Lula fondatore e leader del partito. L’idea che la magistratura inquirente attribuisce a questi personaggi è che l’organizzazione della politica costa, il denaro necessario per finanziarla in qualche modo va trovato, e l’onore dei diretti interessati starebbe solo nel non farne un uso personale. Un’etica nient’affatto nuova in nessun continente.
Ma il Brasile – con il suo melting-pot, in cui ribollono 220 milioni di abitanti, che producono l’undicesimo Pil del mondo – diventa un test socio-politico amplificatore di ogni effetto a dismisura, aggiungendovi adesso il fragore della sparatoria e le sue conseguenze. Lula, già favorito al ballottaggio di domenica prossima, spera di trarne ulteriore e tutt’altro che non necessario vantaggio. Evitando i rischi di altre violenze e di qualche brutta sorpresa. L’ombra del partito militare sui risultati permane. A confortarlo, ci sono però i sondaggi e gli umori di strada. Soprattutto questi ultimi. Dai miseri villaggi del Nordeste alle caotiche periferie delle megalopoli, nessuno dimentica i milioni di dispense riempite di riso, carne e fagioli dalle due prime presidenze (2003-2010) dell’ex operaio metalmeccanico; né il riscatto delle masse nere e mulatte dalla segregazione in cui, malgrado lo Stato di diritto, le manteneva l’immaginario di fatto dominante nei rapporti sociali. Resta comunque fragile la popolosa democrazia brasiliana.
Bolsonaro, proficuamente ricambiato, bombarda Lula d’insulti e fake news. Ha ripreso anche quella secondo cui, se Lula tornasse al governo, chiuderebbe le chiese evangeliche, afferrandosi alla sua presunta intenzione di tassare le loro grandi proprietà: il prelievo fiscale, tra i più iniqui del continente, è uno dei terreni di scontro meglio mimetizzati. Ma non dice una parola sui 685mila morti uccisi dalla pandemia, che beffardamente ha sempre definito una “semplice influenza”, arrivando a gettare con plateale noncuranza in un cestino dei rifiuti la mascherina di protezione datagli all’ingresso di una casa per anziani. Stravolgere, o più spesso banalizzare i problemi, per proporne soluzioni semplicistiche, quando non completamente immaginarie, è uno degliescamotage a cui ricorre più volentieri. È con questo zigzagare che insegue l’avversario nei pronostici. Alcuni dei quali calcolano che in questo rush, disperato quanto tenace, potrebbe anche raggiungerlo. Ciò sebbene multinazionali e grandi gruppi industriali l’abbiano seguito con maggiore scetticismo che sostegno, rimproverandogli di non avere privatizzato le grandi aziende di Stato, a cominciare dalla Petrobras, malridotta nei conti e nell’immagine ma ancora poderosa e molto appetita; e nonostante la classe media sia delusa perché la promessa mano dura non ha ridotto il dilagare del crimine. C’è insoddisfazione, inoltre, per il ministro dell’Economia, Paulo Guedes, campione del neoliberismo che ha liberalizzato più l’import che l’export, aumentando così la concorrenza alla produzione locale. Né piace la politica restrittiva del Banco centrale che, in linea con Stati Uniti ed Europa, punta a portare al 14% il costo del denaro, frenando gli investimenti ma non l’inflazione. Mentre la concorrenza tra i maggiori Stati del Paese – San Paolo, Minas Gerais, Rio de Janeiro, Bahia e il Sud – porta all’aumento della pressione fiscale, al fine di far quadrare i conti e rafforzare le rispettive amministrazioni.
Il sostegno fondamentale a Bolsonaro viene dai giganteschi interessi agro-esportatori, ai quali ha spalancato lo sfruttamento dell’Amazzonia; e dalle potenti milizie evangeliche di cui l’ex capitano dell’esercito è sacerdote officiante e la famiglia fedele assidua e partecipe. Oltre che dalla maggior parte dei militari e del mondo impiegatizio di Brasilia. Decisivo, nell’imminente sfida delle urne, sembra essere però quell’elettorato di borghesia minuta dei centri urbani, non necessariamente religioso, e comunque non politicamente impegnato, che si sente stretto tra élite sempre più ostentatamente milionarie in dollari e la crescente insofferenza dell’eterogenea e vitalissima moltitudine degli emarginati, quelli del mondo delle favelas ma anche del lavoro salariato senza contratto. Ai quali il partito di Lula sostanzialmente non arriva, ricevendone un’attenzione altrettanto distratta. È qui e adesso, nelle prossime ore che, nelle speranze dei bolsonaristi, il cash della cassa riservata della presidenza e dei commercianti d’armi potrebbe fare la differenza, conquistare simpatie, sovvertire i pronostici, spingere, domenica 30 ottobre sera, verso un testa a testa che condurrebbe il Paese in un tragico vuoto di potere.
Nella foto: Roberto Jefferson