Dunque Giorgia Meloni ha la maggioranza in parlamento: ha agevolmente ottenuto la fiducia alla Camera, e, mentre scriviamo, si appresta a riceverla anche nell’altro ramo del parlamento. Possiamo archiviare, per ora, le fibrillazioni post-elettorali, la bagarre per le poltrone ministeriali, le voci dal sen fuggite (più o meno volutamente) che qualcuno, con scarso senso della realtà, ha sperato fossero sufficienti a non far nascere il governo di destra-centro.
Dal punto di vista dell’immagine, farebbe un errore chi sottovalutasse la forza del messaggio simbolico rappresentato da una donna al vertice del governo. Sono tutti legittimi i distinguo sulla estraneità (per alcuni aspetti la contrarietà) della neopresidente del Consiglio alle battaglie femministe; ma la forza del “nuovo” sarà prevedibilmente un formidabile propellente della sua popolarità. Propellente rafforzato dalla rapidissima riscrittura della narrazione dominante, con l’affettuosa attenzione nei confronti di Meloni, da parte di opinionisti e testate giornalistiche, fino a ieri impegnate a lanciare allarmi più o meno drammatici sui rischi che un successo di Fratelli d’Italia e dei suoi alleati rappresentava per il Paese.
Meloni è una persona convinta delle proprie idee, e per questo appare convincente: com’è stato notato da Pier Luigi Bersani, ha ridotto l’antifascismo a una fazione con la chiave inglese in mano. La Resistenza partigiana ridotta a una parentesi della storia. Della stagione più violenta del dopoguerra ha dimenticato, come prima di lei Ignazio La Russa, la strategia della tensione e il coinvolgimento nelle stragi di Stato della manovalanza neofascista (più distinta organizzativamente che distante culturalmente dal Msi, del quale si rivendica il fatto di avere “sempre agito alla luce del sole e a pieno titolo nelle nostre istituzioni repubblicane”). Del resto, l’annuncio della riforma presidenzialista – per passare “da una ‘democrazia interloquente’ a una ‘democrazia decidente’” –, cos’altro è se non la continuazione delle storiche battaglie della destra italiana contro “la partitocrazia”, definizione almirantiana (e pannelliana) della democrazia parlamentare, che ha avuto nei decenni passati un immeritato successo.
Non sarebbe sensato, tuttavia, ridurre la compagine di governo a un manipolo di nostalgici. Il discorso per la fiducia pronunciato a Montecitorio definisce in modo abbastanza chiaro l’identità programmatica del governo Meloni. E, senza la fatica di una revisione troppo profonda di un secolo di storia, essa può evitare di deludere il bacino tradizionale della destra neo, ex e postfascista, disegnando al tempo stesso il profilo di un governo che forse solo il tempo ci dirà se definire solo neo-draghiano oppure, più compiutamente, neo-thatcheriano. La lettura del leader dei 5 Stelle, Giuseppe Conte, che ha letto nel discorso a Montecitorio “un neoliberismo di ispirazione tecnocratica”, potrebbe rivelarsi nel tempo la più azzeccata.
Con il dibattito non troppo popolare su “il presidente” o “la presidente” del Consiglio, Meloni ha dimostrato di poter manipolare con poca fatica quello che gli esperti di comunicazione chiamano l’agenda setting, ovvero la capacità di fissare i temi del dibattito pubblico, imponendoli anche alle opposizioni. È proprio questa, probabilmente, la trappola nella quale rischia di cadere una opposizione divisa e per una larga parte in imbarazzo nel contrastare il cuore delle politiche che le destre attueranno, in ossequio, in questa fase di “guerra mondiale a pezzetti”, come la definì papa Francesco anni fa. Politiche fondate, innanzitutto, sull’obbedienza stretta alle direttive di Washington (Bruxelles oramai essendo alquanto indebolita) cui si sono facilmente allineati gli ex ultrà del “sovranismo” nostrano. Del resto, su molte partite – da quelle relative al caro energia al contrasto all’immigrazione –, ora Meloni e i suoi chiedono astutamente collaborazione proprio all’Europa, sapendo di avere strettissimi margini di manovra, a meno di andare a colpire quegli interessi nel mondo industriale e finanziario che saranno probabilmente l’assicurazione sulla vita dell’esecutivo.
Un tema rilevante resta la preoccupazione per la gestione degli spazi democratici e dell’ordine pubblico. Come sappiamo, la giornata della fiducia alla Camera è stata segnata da una carica della polizia alla Sapienza contro una protesta studentesca. Il tema, che merita uno sviluppo a parte, va però citato perché è rimbalzato nell’aula di Montecitorio. E le parole forse più illuminanti (o più preoccupanti) in vista della legislatura le ha pronunciate Giovanni Donzelli, uno dei massimi dirigenti di Fratelli d’Italia, condannando i messaggi di solidarietà nei confronti degli studenti antifascisti: “Non accettiamo lezioni di democrazia da chi tifa per i violenti che vogliono impedire la libertà”.