Un incontro fulmineo, poco più del tempo per un caffè, una sola voce, quella di Giorgia Meloni, a parlare con Sergio Mattarella per l’intera coalizione presente al Quirinale con una nutrita delegazione, una stringatissima dichiarazione alla stampa dopo. Chiudiamo questo articolo mentre prende forma concreta il governo Meloni ma prima che la leader di Fratelli d’Italia riceva formalmente l’incarico dal capo dello Stato, e quindi ancora senza poter soppesare la lista definitiva dei ministri, pur ampiamente filtrata in bozza nei giorni scorsi attraverso gli organi di informazione e che difficilmente potrà riservare eccessive sorprese.
L’indicazione unanime “della sottoscritta”, come ha spiegato lei stessa ai cronisti, da parte dei partiti del cosiddetto centrodestra, anche negli atti simbolici, quindi, parte con una fortissima legittimazione personale per la prima donna italiana presidente del Consiglio (ancora in pectore alle ore 16 di venerdì 21 ottobre). Una legittimazione che serve a chiarire ai suoi alleati, in primis, e al Paese (o alla “nazione” per usare il linguaggio oggi un po’ desueto caro a Meloni) che l’interlocuzione interna all’alleanza è chiusa, per quanto burrascosa sia stata negli ultimi giorni, in particolare con il leader di Forza Italia. E che da questo momento in poi i conti si fanno con il Quirinale e con gli interlocutori internazionali. Chi volesse tirare il freno, minacciare, mettere in dubbio gli equilibri politici dovrebbe farlo alla luce del sole, magari in parlamento, non con il totoministri “alternativo” in cui si è esercitato Berlusconi in qualche dichiarazione, non con gli audio “riservatissimi” dei discorsi fatti dal leader azzurro di fronte a decine di persone.
In attesa dei primi passi dell’avventura della nuova compagine governativa, si può solo provare a indicare i punti emersi finora per quanto riguarda il posizionamento politico dell’erede della tradizione più identitaria della destra italiana: neo, post o ex fascista che la si voglia considerare.
Primo punto: la collocazione internazionale. È chiara la postura da ultrà della Nato in pieno conflitto bellico, postura nella quale Meloni si prefigge probabilmente di superare anche il suo predecessore Mario Draghi nell’adesione alle spinte più radicali sulla guerra in Ucraina. Non a caso, tra i primi atti del suo governo è in agenda una visita a Kiev, da quel Volodymyr Zelensky che, oltre a difendersi dall’invasione russa e contrattaccare col supporto occidentale, ha messo fuorilegge i negoziati di pace con il suo omologo Vladimir Putin.
Secondo punto: l’economia. Per affrontare la catastrofe produttiva e sociale che minaccia l’Italia a causa dei rincari energetici e di tutti gli altri prezzi a seguire ma anche per gestire i fondi del Pnrr che, pur svalutati dall’inflazione, rappresentano pur sempre la fetta più cospicua della torta finanziaria da gestire da palazzo Chigi, Meloni ha cercato a lungo candidati “tecnici” nel mondo delle istituzioni finanziarie. Per poi virare – almeno fino alla vigilia dell’incarico – sulla figura più “draghiana” disponibile nella sua coalizione: Giancarlo Giorgetti, leghista poco salviniano ma molto amato dalla grande stampa e dal mondo imprenditoriale.
Terzo punto, derivato dal secondo: il welfare. Fratelli d’Italia è da tempo la forza più decisa, forse eguagliata solo da Italia viva di Matteo Renzi, nella contestazione al reddito di cittadinanza, provvedimento simbolo, più o meno riuscito, di una idea di pari dignità anche per gli ultimi della nostra società. Perfino la Lega e Forza Italia preferiscono parlare di “riforma” del reddito, FdI ha dato l’idea di volerlo cancellare, e con esso di voler travolgere una idea eccessivamente solidaristica, che si è fatta parzialmente strada nell’era dei “sostegni”, dei “sussidi”, dei “bonus” sociali che abbiamo vissuto in particolare nella stagione drammatica della pandemia da Covid-19.
Quarto punto, quello del quale presumibilmente si parlerà di più nei prossimi mesi (o anni, se il nuovo governo durerà a lungo): la torsione reazionaria sui diritti civili. Una carta facile da giocare per ringalluzzire i settori più conservatori della società e della Chiesa cattolica, ma anche per solleticare le simpatie di chi, anche fuori dai bacini tradizionali di consenso della destra, rimprovera alla politica una eccessiva attenzione alle battaglie “culturali”, che va di pari passo con il disinteresse per le condizioni “materiali” dei lavoratori, delle piccole imprese, delle famiglie. Una carta quasi doverosa da giocare per l’alleata dei sovranisti polacchi e dei postfranchisti spagnoli, per la presidente dell’Ecr (European Conservatives and Reformists Party), aspirante leader dei “conservatori” europei.
Se è il momento di azzardare una prima prematura previsione, potremmo immaginare che sulla torsione reazionaria sarà più facile, per i molto divisi partiti dell’opposizione parlamentare, alzare la voce e caratterizzare se stessi come alieni e alternativi alla destra meloniana. Ma è sui tre punti precedenti che più realisticamente si misurerà la possibile costruzione di una coalizione sociale e politica, che possa traghettare l’Italia fuori dalla stagione dell’alternanza democratica fra destra tecnocratica e destra reazionaria.