Uniti nel 1937 contro l’invasore giapponese e divisi definitivamente nel 1946, i due grandi protagonisti della lotta cinese contro il Giappone, il Guomindang dell’allora leader nazionalista Chiang Kai-shek e il Partito comunista fondato da Mao Zedong, hanno lasciato in eredità al mondo un pesante conflitto, finora limitato a minacce e manovre militari, ma che resta comunque un grave problema geopolitico. Da un lato, la Repubblica popolare cinese che vorrebbe rimettere le mani sulla Repubblica di Cina – meglio conosciuta come Taiwan, dal nome dell’isola principale dell’intero arcipelago dove, sconfitti dai comunisti, ripararono i nazionalisti; dall’altro, la “piccola Cina” come potremmo definirla – circa 36mila chilometri quadrati e poco più di 23 milioni di abitanti – che non ne vuole sapere di essere schiacciata dal tallone di un regime autoritario. Malgrado non sia riconosciuta, per evidenti ragioni di opportunità politica ed economica, da quasi nessun Paese del globo (fanno eccezione Città del Vaticano, Guatemala, Haiti, Honduras, Isole Marshall e Nauru), l’Occidente – e in particolare gli Stati Uniti – sono molto impegnati a difendere Taipei dalle smanie del presidente Xi Jinping, appena nominato per la terza volta alla guida del Pcc, in occasione del suo XX congresso. “Non rinunciamo all’uso della forza su Taiwan” – ha tuonato il leader cinese.
Tra Pechino e Washington, il braccio di ferro non si è ma interrotto. L’ultimo episodio, in ordine di tempo, si è verificato lo scorso agosto in occasione della visita della portavoce della Camera dei rappresentanti, la democratica Nancy Pelosi, che ha incontrato la presidente taiwanese Tsai Ing-wen. Viaggio considerato provocatorio da Pechino. Come risposta, si sono tenute esercitazioni militari senza precedenti del più grande Paese asiatico intorno a Taiwan. I due eventi hanno di fatto cancellato la cosiddetta “linea mediana”, ovvero quel confine non riconosciuto da Pechino, ma rispettato, finalizzato alla creazione di una zona cuscinetto tra le due sponde dello Stretto. Questo spazio non dev’essere violato da esercitazioni militari, ma ormai la frittata è stata fatta. E le premesse c’erano già nel 2019, quando tale confine – spazio di identificazione di difesa aerea – ha iniziato a divenire permeabile. Questo scenario non può non condizionare il quadro politico taiwanese.
Il prossimo 26 novembre, la popolazione dell’arcipelago andrà a votare. Si tratta di un appuntamento elettorale apparentemente di secondo piano, in quanto locale. Ma viene considerato una sorta di consultazione di midterm, che serve a tastare il polso della situazione politica del Paese, in vista delle presidenziali del 2024.
Nel 2018, il Partito progressista democratico (Dpp), fondato nel 1986 e membro dell’Internazionale liberale, è stato duramente sconfitto, tanto che la candidatura dell’attuale capo dello Stato per le elezioni del 2020 è stata incerta fino all’ultimo, con il partito sull’orlo di una grave scissione. La situazione è stata riportata alla normalità, grazie all’intervento di William Lai, già sindaco di Tainan, oggi vicepresidente e probabile candidato per il 2024. Inoltre, un indebolimento della principale forza politica del Paese avrebbe costituito un grave elemento di instabilità assolutamente inopportuna di fronte alle minacce di Pechino. Il Dpp chiede una “identità separata” e una nuova Costituzione, che marchi ancor più la differenza con il potente e aggressivo gemello. Politica diversa dallo storico partito fondato da Sun Yat-sen e Chiang Kai-shek. Il Guomintang, principale forza di opposizione, infatti, cerca di gettare acqua sul fuoco con una linea finalizzata a distendere i complicati rapporti tra Stati Uniti e Cina. Come ha dimostrato la visita dello scorso giugno negli Stati Uniti del presidente del partito, Eric Chu, in occasione della quale è stato riaperto l’ufficio di rappresentanza del partito di Washington (chiuso dal 2008), con l’evidente intento di aumentare i propri consensi in vista delle elezioni del 2024. Che il Guomintang punti al raggiungimento di una ancora non ben definita riconciliazione con Pechino, lo ha dimostrato in agosto un clamoroso viaggio di una delegazione guidata dal vicepresidente del partito, Andrew Hsia. Una notizia trapelata solo il giorno prima, che ha provocato molte proteste non solo da parte del Dpp ma anche nello stesso Guomintang, tanto che alcuni funzionari locali hanno proposto di cancellarlo.
“A essere criticato – sostiene Lorenzo Lamperti, direttore della testata online ‘China Files’ – è stata soprattutto la tempistica della visita, avvenuta mentre l’Esercito popolare di liberazione stava ancora conducendo manovre militari su larga scala vicino a Taiwan. Il 13 agosto, Hsia si è dimesso dal suo incarico di consigliere del governo della città di Taichung, una mossa da leggere, però, in funzione non nazionale ma locale, visto che il 26 novembre sono previste elezioni a Taichung”.
In realtà il viaggio, giustificato da ragioni di puro carattere economico, in quanto in Cina ci sono molti imprenditori dell’isola, è stato sostenuto dal leader del partito, Eric Chu, eletto presidente lo scorso anno, la cui parola d’ordine è “né riunificazione, né taiwanizzazione” – alla ricerca, appunto, di una soluzione condivisa della contesa che tenga conto delle esigenze delle due Cine, allo stato attuale delle cose lontanissime da un’intesa.
Taiwan ha conosciuto una rapidissima quanto interessante democratizzazione avviata dal 1987, quando è stata revocata la legge marziale imposta dai nazionalisti del Guomintang, partito che, come abbiamo visto, è rimasto uno dei protagonisti della scena politica del Paese. Oltre a godere di una fiorente economia – è la ventiduesima economia nel mondo, con un tasso di crescita che viaggia tra il 3 e il 4% –, secondo Giuseppe Carteny, awardee presso la Taiwan Fellowship 2017, “Taiwan, rappresenta oggi una delle più solide e vibranti realtà democratiche dell’estremo Oriente. Questa giovane repubblica semipresidenziale – prosegue il ricercatore –, nata da uno dei regimi autoritari più opprimenti della seconda metà del Novecento, è riuscita a trasformarsi in una liberal-democrazia, grazie a una veloce transizione democratica, sospinta da una crescente pressione sociale e governata dal partito dominante del precedente regime, divenuto poi parte integrante del nuovo sistema politico dell’isola”.
Per Pechino, occupare e smantellare un sistema così consolidato significherebbe mettere in atto una repressione inaccettabile e inevitabilmente sanguinosa. Per evitare questo, si rende necessaria una distensione tra Pechino e Washington, da raggiungere evidentemente anche su altri fronti geopolitici, con una prevalenza di posizioni meno velleitarie a Taiwan. Al riguardo, l’esito delle elezioni del 2024 mostrerà quale sarà l’orientamento della popolazione.