“Gli italiani che non hanno rinunciato all’appellativo di uomini si uniscano al di sopra delle fazioni, al di sopra dei partiti, al di sopra delle divisioni interessate e volute”. Uno dei film più duri di Marco Bellocchio, Sbatti il mostro in prima pagina, comincia con queste parole. Le pronuncia un giovane con l’impermeabile, da un palco, di fronte al Castello sforzesco di Milano. Si rivolge a un pubblico che sventola bandiere tricolori, qualcuna con lo stemma monarchico. Ha i modi spicci, il tratto nervoso e la voce roca. Si chiama Ignazio La Russa. Il girato è originale.
Vale la pena rivedere quel film, del 1972, dove ha un peso importante un quotidiano. Dirlo di destra sarebbe riduttivo; è una fabbrica furba e atroce di conformismo e di menzogna, un arnese padronale e inquisitorio. Si chiama “Il Giornale”, ma quello che prenderà davvero questo nome nascerà solo qualche anno dopo. Il senso d’ovvio, di prevedibilità confortante che spira in quella testata è il sunto di un’Italia polverosa che non vogliamo e che invece sembra intramontabile. Sarà preso a bersaglio, anni dopo, in epoca berlusconiana, da Paolo Rossi nella canzone Abdul: chi ha scelto di chiamare così un organo d’informazione? forse qualcuno che ha chiamato il figlio “figlio” e il cane “cane”.
L’ovvietà non fa più ridere se diventa la fabbrica del sospetto, come quella che ruota attorno al reato sessuale nel film. E il cinismo borghese del direttore del “Giornale”, quando dà ordini ai dipendenti (“la lotta di classe la facciamo anche noi, non l’hanno inventata Marx e Lenin”), o quando insulta la moglie in salotto, fa ridere ancora meno perché in Italia, dagli anni Settanta, forse è peggiorato. Comunque, le fucine della falsa coscienza possono ancora contraffare la realtà, scambiare l’innocenza e la colpa, mischiare le carte oppure, disinvoltamente, fabbricare la storia da una poltrona del potere, predicando pacificazione e concordia.
Se si volesse spiegare il percorso dell’uomo che è stato eletto alla presidenza del Senato, bisognerebbe seguire la sua appartenenza all’estrema destra. È quella che si ispira alla repubblichina di Salò, che sopravvive protetta dagli Stati Uniti subito dopo, e si oppone in ogni modo alla Costituzione e alla Repubblica. Quella contraria al riscatto del Paese dal peggio del passato, dai fardelli del clericalismo spacciato per spiritualità, quella dell’odio antioperaio travestito da pace sociale, della repressione mascherata da ordine. Se si guarda ai diritti sociali, la scheggia postuma del corporativismo e dei cartelli capitalisti protetti è sempre stata contro i lavoratori. Se si guarda ai diritti civili, più freddi o modaioli, basta ricordare che l’Msi, nel 1974, fu contro il divorzio e che, dopo l’esito del referendum, Almirante disse che gli italiani erano stati ingannati.
Ma serve, riepilogare una vita di fascismo strutturale? Meglio tener presente altro. Per esempio, che La Russa è stato il difensore di Cesare Previti nel caso Squillante, cioè a ridosso della vicenda Mondadori, una storia che ebbe per strumento l’intrigo e per scopo il controllo criminale sull’informazione. La teste chiave del caso, Stefania Ariosto, per il trattamento in udienza rimase sconvolta. La Russa accompagnava le urla con “la stiamo trattando come un fiore”. Altre cose, come il volo sull’Afghanistan col paragone con D’Annunzio, sono colore quasi trascurabile.
Eppure, in questi tratti comportamentali – un po’ per indole personale, un po’ per modello da offrire al pubblico –, c’è molto della condizione italiana, dell’autostima sincopata e istrionica di un popolo che smania e impreca per poi ubbidire, che fa i capricci contro i vaccini ma non vede l’ora di inchinarsi a un capetto.
Viene in mente quel che scrive Gramsci del futurismo – così imparentato con la camicia nera – quando paragona i nuovisti a scolari fuggiaschi, presto ricondotti sotto la frusta dei gesuiti. In proposito, è chiaro Wilhelm Reich: “La mentalità fascista è la mentalità dell’uomo della strada mediocre, soggiogato, smanioso di sottomettersi a un’autorità e allo stesso tempo ribelle”.
Che La Russa riceva la presidenza del Senato da una sopravvissuta al Lager, visto che è Liliana Segre a esercitare la funzione, per la seduta, è un segno dei tempi evidente. E che dica di essere d’accordo con la senatrice a vita, è una tattica prevedibile. Al mondo cameratesco lo spirito di adattamento non manca; in cento anni si sono messi l’orbace, la divisa, il doppiopetto, il loden, la felpa e anche il tailleur, magari passando per una barba e un impermeabile.
Se valesse la pena approfondire il discorso di insediamento – un po’ un volantino del Msi rabbonito e un po’ un convegno al Parco dei principi col bonus famiglia –, si noterebbero i toni rassicuranti, una lode sincera a Violante (contribuì a rivalutare i “ragazzi di Salò”) e una gran voglia di un’Italia uniforme, allineata, senza sorprese. Un’Italia che cammini semplice e che abbia in mente le cose elementari, comprese quelle pulsionali (“tutelare la natalità”), con le loro ombre.
Indimenticabile, quanto accaduto a New York, al Columbus Day del 2009, per strada: un italiano contestò il ministro La Russa, e lui reagì mostrando la lingua e ripetendo “ti riconosco, pedofilo, con le bambine, pedofilo, pedofilo…”; contennero la situazione i poliziotti americani. Curioso: sullo stupro e l’assassinio di una ragazzina ruota la campagna del “Giornale”, quello nel film, per manipolare le elezioni. Sempre nel film, fanno una pessima figura la polizia e il magistrato, che fa mimare il delitto agli agenti, davanti all’accusato innocente, per poi dedurre, dal suo disgusto, che è colpevole.
Questo stato di cose è l’esito di una legge elettorale più truffaldina di quella democristiana del 1953, dell’appoggio padronale, del lavaggio del cervello fatto con anni di televisioni P2, della prostituzione degli intellettuali e – quanto all’elezione di La Russa, col contributo di voti in maschera – di un doppiogiochismo che magari si crede lungimirante ed è solo manovriero. Ecco su cosa poggia, la richiesta di consenso patriottico che sentiamo all’inizio della diciannovesima legislatura, simile al linguaggio della Maggioranza silenziosa d’antan. Il conflitto significherebbe scelte, svegliare le coscienze, cambiare i sonnambuli in cittadini; meglio confondere tutto, mischiare fatti e valori; il neopresidente propone di festeggiare, oltre alla Repubblica, la nascita del regno d’Italia. Sono ambizioni vaste, “al di sopra dell’ormai superato, in disuso e troppo a lungo sfruttato fascismo e antifascismo”, come disse mezzo secolo fa, a Milano, un giovane con l’impermeabile.
E l’informazione? Il direttore del “Giornale” (nel film Gian Maria Volonté) è chiaro: “Chi è il nostro lettore? È un uomo tranquillo, onesto, amante dell’ordine”. Il film finisce con un’ondata di liquami nei Navigli.