Che cosa succede a Teheran? Per tentare di rispondere a questa difficilissima domanda, non si può che partire da quanto è accaduto a Beirut, prima linea di tanti conflitti mediorientali, soprattutto di quello definito tra sunniti e sciiti, e in realtà tra iraniani e sauditi. Due opposte visioni egemoniche, che coinvolgono alleanze e scontri. Beirut, sotto il controllo di Hezbollah e degli alleati dell’Iran, ha trovato un accordo con Israele sullo sfruttamento dei giacimenti mediterranei di idrocarburi che riguardano entrambi i Paesi. Un confine terrestre riconosciuto tra i due Stati non appare pensabile da decenni, ma c’è ora quello marittimo. I lavori per sfruttare le grandi ricchezze recentemente scoperte possono cominciare. E Hezbollah, spina nel fianco di Israele in nome e per conto dell’Iran, è d’accordo. Basta provocazioni, ora si evitano attriti di terra per dare serenità alle trivellazioni bilaterali nel mare.
Per qualcuno è l’inizio di una libanesizzazione di Hezbollah. Il Libano è un Paese con l’acqua alla gola: si diffonde il colera, si muore di fame, nessuno sa più come vivere. Poteva quindi permettersi di non firmare un accordo che dà una prospettiva agognata da tutti, avere qualcosa da mangiare almeno una volta al giorno? Siccome però è difficile pensare che Hezbollah abbia detto di sì solo per questo, e non anche perché Teheran ha approvato la scelta, occorre capire i motivi del sì. Teheran non rinuncia alla sua propaganda, è normale; e annuncia al morente Libano il generoso invio di un dono in greggio. Il Paese è alla paralisi. Dunque una scelta di “amicizia” solidale. Tempistica interessante, ma fa capire che c’è dell’altro, ovviamente.
Hezbollah infatti si mobilita per dimostrare che i giovani sciiti libanesi sono con gli ayatollah – e cioè contro la piazza, il movimento, la protesta. Anche qui si tratta di propaganda, del tutto comprensibile. Il punto è allora nella forza della sollevazione popolare, se si deve mettere in scena tutta questa solidarietà, non proprio spontanea per chi sta affogando tra i debiti. Poteva Teheran continuare a svenarsi per Hezbollah, mentre l’intero Paese denuncia repressione e malgoverno, imponendo un rifiuto a un accordo che avrebbe alimentato la rabbia in Libano come in Iran? Sembra di no. Le ragazze di Teheran dunque cambiano il mondo, le priorità. Il regime iraniano, oltre a dimostrarsi preoccupato, si dimostra interessato. Dopo il voto americano di novembre, ormai imminente, cosa sarà di quell’accordo sul nucleare che comporterebbe la rimozione di molte sanzioni all’Iran? Se arrivasse, non sarebbe importante per un regime che ha urgente bisogno di spendere, e molto, per acquietare una piazza furiosa? Probabile.
Qui il pragmatismo entra in conflitto con la mancanza di pragmatismo dell’ideologia ufficiale del regime, che si fonda su tre slogan: morte agli Stati Uniti! Morte a Israele! Velo! Come tenere insieme una svolta pragmatica e un’ideologia teocratico-rivoluzionaria? I punti del ragionamento appaiono due: il clero khomeinista e i pasdaran. Eterni alleati di una strategia fondata da Khomeini, i pasdaran si dividono tra chi reprime in patria, chi gestisce l’apparato militare-industriale nazionale e quanti all’estero esportano la rivoluzione. Che Hezbollah abbia manifestato, in queste ore – inneggiando a Khomeini e al defunto capo dei pasdaran esportatori della rivoluzione, Soleimani –, è ulteriore prova di un legame indissolubile.
Tra i punti in discussione, nel trattato sul nucleare, ci sarebbe per Teheran anche quello delle sanzioni contro le aziende dei pasdaran, inseriti nella lista delle organizzazioni terroristiche. Qui c’è un nodo evidente. Chi parla di una possibile svolta “nazionalista e militarista”, magari dopo la scomparsa di Khamenei, vede profilarsi il sopravvento dei pasdaran sul clero, al fine di controllare con mano nazionalista il Paese e forse con un minore rigore religioso. Ma le due cose, repressione e rivoluzione islamista, non sono forse in simbiosi?
Difficile muoversi tra queste incognite e tra i possibili mutamenti; certo, la società iraniana sta vivendo un ritorno del proprio protagonismo, anche quello di una nuova borghesia urbana e di una nuova classe imprenditoriale. Il movimento sta cambiando tutto. La repressione non esaurisce la storia, sebbene la sua forza possa prevalere ancora. Tornare ai punti fermi del khomeinismo appare una prospettiva possibile ma senza visione, perché i ceti più poveri, la borghesia urbana più o meno impoverita, i giovani, sono insieme dall’altra parte. Occorre tenerne conto, la storia è maestra, anche se non si ripete.