Sarà un caso, ma la prima manifestazione dopo le elezioni che hanno sancito la vittoria delle destre si è conclusa in Piazza del Popolo, a Roma. Dal palco, il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, è stato chiaro: non abbiamo pregiudizi, il sindacato tratta con ogni governo, ma dovranno “ascoltare la voce del lavoro”. Se ci convocheranno a cose fatte – dice il leader, pensando alla recente esperienza Draghi – non ci presenteremo neppure. Quindi è chiaro che i prossimi mesi si giocheranno intorno alle “tre P”: le Piazze delle manifestazioni (il calendario delle mobilitazioni contro la guerra già si allunga), il Palazzo (o i palazzi) del potere, che dovrà decidere anche sullo scioglimento delle formazioni neofasciste, e il Popolo, quello dei lavoratori e dei pensionati che pagano le tasse, delle partite Iva più o meno finte, quello del pulviscolo dei lavori e lavoretti al nero e degli appalti della logistica, delle periferie anonime, dove è cresciuto il rancore che spinge a votare anche contro i tuoi stessi interessi.
Cominciamo dal Palazzo. Landini ha spiegato che il nuovo governo nasce sulla base di una normale consultazione democratica, ma su numeri che non certificano la reale maggioranza nel Paese, visto il livello mai raggiunto dall’astensionismo. È questione sia di percentuali sia di numeri assoluti. In ogni caso, ora il pallino è nelle mani della destra, in particolare di Giorgia Meloni – che, con un fastidioso vezzo mediatico, è diventata per tutti “Giorgia”. Dietro di lei, nel retropalco, gli uomini legati ai poteri forti e garanti della continuità con gli anni del berlusconismo e con gli interessi del capitale finanziario e dell’industria del Nord, come ha spiegato su “terzogiornale” Rino Genovese.
Lo scontro sul ministero dell’Economia si può leggere, forse, anche da questo punto di vista, pensando a quello che è successo nel Regno Unito, con la clamorosa retromarcia della premier Truss (vedi qui). La destra è infatti schiacciata tra le sue origini “sociali”, quelle di Meloni, e la destra del capitale, che preferisce evitare di far pagare le tasse ai super-ricchi. Il primo vero problema – per il sindacato confederale italiano, che ambisce a non cadere nelle trappole dello Stato delle corporazioni – sarà dunque quello di individuare una “sponda” politica alla mobilitazione. Il modello della “cinghia di trasmissione” è finito da tempo: e poi con quale “sinistra”, visto che oggi è frantumata e fuori dal Palazzo, ed è anche responsabile di avere fatto politiche di destra come la cancellazione dell’articolo 18 e il jobs act?
È chiaro però che la mobilitazione sociale non può essere fine a se stessa. Com’è noto, nelle epoche d’oro del sindacato, le conquiste politiche sono arrivate sempre dopo le lotte sindacali e sociali. Si sono dette “frutto” di quelle lotte: statuto dei lavoratori, riforma sanitaria, accesso all’istruzione, ecc. E oggi? In qualche cassetto del parlamento giace, dimenticata, la proposta di legge della Cgil su una nuova “Carta dei diritti”, visto che un sindacato confederale ha senso se può essere misurato nella sua reale rappresentanza, e se è capace di rappresentare davvero tutto il mondo del lavoro, non solo quella parte a cui si applicano i contratti nazionali di categoria. Ma la politica, finora, ha fatto finta di niente. E che dire delle dieci proposte lanciate da Corso Italia, che sono l’esatto opposto della politica dei condoni e della flat tax? Anche il decalogo, quell’“agenda rossa” di cui ha parlato “il manifesto”, finirà nei cassetti di Palazzo Chigi o di Montecitorio? Da come si stanno mettendo le cose, sembra molto probabile che ci troveremo di fronte a politiche fiscali alla Tremonti e politiche sanitarie alla Formigoni.
Il Popolo. Lo spettacolo che è andato in scena intorno alla manifestazione di sabato 8 ottobre non è tra i più rassicuranti. Anzi, può perfino infastidirci, visto che quasi tutti i media hanno fatto a gara a dire chi c’era e chi non c’era in piazza. Sui contenuti della manifestazione e sulla composizione sociale del corteo, niente o quasi. Si è parlato invece dell’assenza di Enrico Letta in piazza e della comparsa a metà comizio di Giuseppe Conte. Il “tema” (altro termine usato e abusato nella comunicazione politica), non è l’analisi delle ragioni sociali più profonde della crisi della rappresentanza politica (Michele Mezza invita a rileggere i Grundrisse qui), ma la gara a chi potrà mettersi alla testa dell’opposizione al governo delle destre.
Sembra che l’antica piazza rossa abbia fatto paura a Letta e abbia invece incoraggiato Conte a mischiarsi tra la gente, senza temere contestazioni, pur essendo reduce dalla guida di due governi. Che cos’è oggi dunque il Popolo della sinistra? E come sono cambiate le stratificazioni sociali, quei “blocchi” di cui parlava Gramsci? Questo è sicuramente un grosso problema per il sindacato – e lo ha ammesso anche Landini: il sindacato deve cambiare. “Nonostante i tentativi di intercettare i nuovi lavoratori e di aggiornarsi, anche i sindacati sono in ritardo di fronte ai cambiamenti strutturali del mondo del lavoro” – ha spiegato il sociologo Marco Revelli in un’intervista che non dev’essere letta come l’ennesima critica al sindacato “casta”, ma come un invito a un salto teorico e pratico. Ci viene in mente, per esempio, il tentativo di Bruno Trentin che aveva cercato di imporre – nello stesso sindacato – un superamento dei vecchi parametri nell’epoca del “neocapitalismo”. Ma oggi – dice Revelli – è molto difficile riuscire a garantire le tutele in situazioni frammentate dal punto di vista contrattuale (basti pensare al settore della logistica). E “più in generale è difficile tutelare un lavoro che non è più l’elemento che definisce l’identità di ciascuno”.
La Piazza. Anche le manifestazioni stanno cambiando. Esiste lo spazio virtuale dei social, quello dei media (controllati sempre dai poteri forti), e lo spazio fisico delle piazze reali con nome e cognome. Lo spazio pubblico è conteso da destra e da sinistra. In piazza ci vanno i lavoratori per chiedere diritti e il rinnovo dei contratti, ci vanno i metalmeccanici e ci vanno i tassisti per opporsi alle liberalizzazioni. Ci vanno perfino i gestori delle stazioni balneari, che non vogliono una riforma che metterebbe in discussione il loro privilegio di gestire l’accesso alle spiagge. Le piazze sono e saranno il luogo della battaglia per i diritti civili, e sono anche i luoghi drammatici degli scontri politici più duri e di confine, come quelli che si sono visti a Mosca o in Iran (tra l’altro, alla manifestazione di sabato è stato molto applaudito lo striscione delle donne iraniane).
Nel prossimo periodo le piazze saranno anche il luogo della mobilitazione contro la guerra che potrebbe essere l’ultima guerra, la fine dell’umanità. Su questo, la sproporzione tra quello che si dice, tra il senso comune che si dà per acquisito, e quello che realmente potrebbe succedere, è enorme. Quando i movimenti degli anni Sessanta inventarono il simbolo della pace avevano perfettamente chiaro che cosa voglia dire una bomba nucleare, perché l’avevano vista alla fine della guerra mondiale, in Giappone (il simbolo della pace vuol dire “no al nucleare”). Ma oggi, forse, non ci si rende neppure conto della posta in gioco: anche qui la comunicazione mediatica è ridotta a una patetica tribuna politica mondiale, con le faccette dei protagonisti che pronunciano frasi da film di fantascienza, senza che ci sia un sommovimento popolare. Le piazze per la pace saranno dunque importanti: ma non devono essere strumentalizzate e non possono essere solo merce di scambio tra i politici. E soprattutto non potranno essere separate da quel lavoro da fare per ricostruire una sinistra all’altezza delle trasformazioni. Le piazze saranno belle e produrranno un cambiamento se avranno un legame con le piazzette urbane dei nostri quartieri e con il grande studio da fare sulle piattaforme digitali – per capire come rappresentare il lavoro nuovo, senza lasciarlo nelle mani degli algoritmi.