È già passata la grande paura? Sembra proprio di sì, se si fa una comparazione fra il grande allarme di qualche mese fa per il prevedibile successo delle destre e il grigio trantran di questi giorni. Giorgia Meloni si è chiusa per una settimana intera a Montecitorio, nelle sue pre-consultazioni con alleati e ipotetici ministri: non propriamente un successo, finora, il suo casting fra i tecnici di alto profilo. Fallito, almeno finora, il corteggiamento nei confronti di quello più importante: Fabio Panetta, ex direttore generale della Banca d’Italia e aspirante governatore della medesima, attualmente membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea, che in futuro potrebbe però ripensarci se intervenisse il presidente della Repubblica. Meloni vorrebbe Panetta all’Economia (o al Tesoro in caso di spacchettamento dalle Finanze), come una sorta di garante di quel percorso obbligato del quale il presidente del Consiglio uscente, Mario Draghi, aveva parlato fin dal 2013, quando sedeva al vertice della Bce: “L’Italia prosegue sulla strada delle riforme, indipendentemente dall’esito elettorale. Le riforme continuano come se fosse inserito il pilota automatico”.
Il pilota automatico – variante tecnocratica della democrazia parlamentare – resta un punto fermo della visione politica di Draghi, che ha avuto occasione di ribadirlo nel suo intervento al meeting di Rimini, nel mese di agosto, in quella che a molti osservatori è apparsa come una “luce verde” per il futuro governo Meloni: “Sono convinto – disse – che il prossimo governo, qualunque sia il suo colore politico, riuscirà a superare quelle difficoltà che oggi appaiono insormontabili – come le abbiamo superate noi l’anno scorso”.
Sono passati solo due mesi, o poco più, ma chi si ricorda oggi, del passaparola a sinistra per il rischio di una maggioranza di destra autosufficiente anche per una riforma costituzionale immune dall’eventuale referendum confermativo? Un rischio, per la verità, che non è mai sembrato molto concreto a chi studiava i dati dei sondaggi e la mappa dei collegi elettorali (ne avevamo parlato qui), ma che poteva avere una sua presa in alcuni settori di elettorato. Sta di fatto che chi ha seguito per intero l’interminabile direzione del Partito democratico di giovedì 6 ottobre racconta che, a urne ormai chiuse, dei timori per le sorti degli equilibri costituzionali non si è trovata più neppure una labile traccia fra le decine di interventi che hanno animato la riunione.
Al netto del braccio di ferro con gli alleati di Lega e Forza Italia, che vorrebbero un governo più “politico” possibile (in italiano: con un adeguato pacchetto di poltrone ministeriali per i diversi partiti della coalizione), Meloni per ora non pensa alle riforme ed è già alle prese con le partite che dovrà giocare in concreto, quando riuscirà a mettere in piedi il nuovo governo. Prima ci sono da sistemare le cariche istituzionali, a partire dai presidenti delle Camere, primo passo per l’avvio delle consultazioni del presidente della Repubblica in vista del nuovo governo.
La presidente di Fratelli d’Italia si è già da tempo assicurata un approdo liscio alla guida del governo, fornendo ampie garanzie di allineamento al campo occidentale. Lo ha fatto già negli ultimi mesi del governo Draghi, quando la sua posizione sulla guerra in Ucraina è stata di fatto di maggioranza, pur essendo formalmente FdI all’opposizione; e lo ha fatto con un dialogo molto fraterno col presidente ucraino Zelensky dopo le elezioni.
Ma i miliardi da spendere del Pnrr – con qualche frizione poi sopita fra lei e Draghi per le accuse di ritardi rivolte al governo uscente – e il drammatico dossier dell’energia sono già entrati nella sua agenda quotidiana. È quest’ultimo il tema più scottante, per i rischi che porta con sé: di paralisi del sistema produttivo e delle amministrazioni pubbliche – e di vero e proprio dramma sociale per milioni di cittadini.
Su questo tema, può apparire come un segno di nuova saggezza “europeista” la linea espressa da Meloni e dai suoi, cristallizzata nella limpida dichiarazione del capogruppo uscente al Senato, Luca Ciriani: per fermare la speculazione sui prezzi dell’energia, “è necessario ribadire ancora una volta che la soluzione non è nazionale, è europea”. Ma, vista da un altro punto di vista, questa linea potrebbe essere un segno della consapevolezza di un’eredità difficile, sulla quale il nuovo governo sa di avere pochi margini di manovra. Ma se le cose andranno così, cosa potrà segnare la “discontinuità” politica rivendicata a più voci dalle destre dopo il successo elettorale?
Difficile credere che ci si accontenterà di qualche intervento censorio su cartoni animati e telefilm troppo laschi in materia di identità di genere. Tornerà di attualità il tema dei blocchi navali e della “tolleranza zero” sui flussi migratori? Ci saranno interventi restrittivi su un tema delicatissimo come il diritto all’aborto? Si avvierà la promessa inchiesta parlamentare sulla gestione della pandemia, minaccia implicita a molti componenti dell’opposizione? Non sono pochi, come si vede, i temi sui quali, se la crisi economica si dovesse aggravare, il governo Meloni potrebbe alzare le bandiere del “riscatto”, per usare un termine caro alla premier in pectore. Portare le opposizioni su questi terreni, distogliere l’attenzione dai costi – per l’Italia e per l’Europa – della guerra e delle sanzioni potrebbe essere la strategia vincente per la prima fase del governo di destra. Un problema in più per le opposizioni, che mai come questa volta appaiono, all’alba della legislatura, divise e ostili fra loro.