I sogni muoiono all’alba, recitava il titolo di un vecchio film. E così, nel giro di pochi giorni e poche convulse notti di consultazioni, si è sgonfiato l’ambizioso programma iperliberista di Liz Truss. Abbandonata dal suo stesso partito, la nuova prima ministra inglese si è trovata nella difficile condizione di dovere combattere su più fronti: non solo quello della fronda interna, rappresentata dai sostenitori del rivale Rishi Sunak e dai nostalgici di Boris Johnson, che tutto sommato “le sparava meno grosse”, ma anche sull’inatteso fronte esterno rappresentato dal Fondo monetario internazionale, da cui è giunto un severo monito. Al Fondo non garbava, infatti, una politica fiscale come quella prevista dal piano Truss-Kwarteng, che avrebbe finito per confliggere con la politica monetaria, da mesi perseguita dalla Banca d’Inghilterra, per contrastare un’inflazione senza precedenti, che supera ormai il 10%.
Inoltre, la ricetta, ispirata non solo a precedenti progetti della prima ministra, ma suggerita – si mormora – da qualche think tank americano di estrema destra, che prevedeva di redistribuire la ricchezza verso l’alto, con il taglio delle aliquote ai ricchi e la riduzione della spesa pubblica e dell’assistenza sociale, faceva temere possibili disordini: cosa che non ha mancato di mettere in allarme perfino le agenzie di rating. A dare la mazzata finale, ci si sono messi i mercati finanziari, che hanno giudicato la manovra rischiosissima, in buona parte costruita su nuovo debito, scatenando una tempesta monetaria che ha portato a un rapido crollo della sterlina, faticosamente arginato dalla Banca d’Inghilterra. Curiosamente, quello che avrebbe dovuto essere l’avversario politico principale, cioè il Partito laburista, si è limitato a godersi l’autoaffondamento della barca di Truss stando alla finestra, senza intervenire criticamente, se non in maniera piuttosto timida, probabilmente già soddisfatto dei sondaggi, che lo danno ormai stabilmente in grande vantaggio rispetto ai conservatori.
Solo dal sindacato sono venute voci che parlavano apertamente di un acutizzarsi del conflitto di classe e invitavano i lavoratori a fare fronte comune per opporsi. In ogni caso, cercando di porre fine alle polemiche, lunedì 3 ottobre, Truss ha annunciato di fare marcia indietro rispetto al programma enfaticamente annunciato poco più di una settimana prima, e ha cercato un capro espiatorio nel povero fedelissimo cancelliere dello Scacchiere, Kwasi Kwarteng, su cui ha scaricato in maniera poco elegante gran parte delle responsabilità della contestatissima misura.
Kwarteng, soprannominato Kwasi Kamikaze per la sua fedeltà incondizionata al capo, ha abbozzato: dopo avere rischiato la defenestrazione, ha dichiarato, sia pure a denti stretti, di avere capito la lezione. “È chiaro che la rimozione dell’aliquota del 45% [per i contribuenti che guadagnano più di 150.000 sterline (171.452 euro) all’anno] ha fatto passare in secondo piano la nostra missione di affrontare le difficoltà del Paese. Pertanto, vi annuncio che non la porteremo avanti. Abbiamo capito, abbiamo ascoltato. Questo ci permetterà di concentrarci sull’attuazione dei principali elementi del nostro piano di crescita. In primo luogo, il tetto ai prezzi dell’energia”.
Sulla stessa linea, Liz Truss: nel corso del congresso del partito tenutosi a Birmingham, che avrebbe dovuto celebrare la sua elezione – e che ha finito, invece, per metterne in dubbio la legittimità –, ha cercato di minimizzare, sostenendo che il piano economico nel suo complesso in ogni caso andrà avanti, dopo averne espunto la patata bollente fiscale. Anzi, secondo la prima ministra, la discussa aliquota è divenuta un “elemento di distrazione” rispetto ai contenuti innovativi del piano economico, l’unico, a suo avviso, che permetterebbe di rilanciare la stagnante economia del Regno Unito, ormai sull’orlo della recessione.
L’atteggiamento di Truss, e la sua insistenza sul piano proposto, suscitano alcune riflessioni. L’ideologia neoliberale, che ha dominato gli ultimi decenni, appare qui portata all’estremo, anche in maniera piuttosto rozza, e diviene, in questa visione da Robin Hood alla rovescia, una sorta di ultima spiaggia per sfuggire a un destino di “declino graduale”. Il neoliberalismo, in questo caso, tocca con mano i suoi limiti, e invita a un suo superamento, anche se questo oltrepassamento si deve forzatamente giocare sul filo di un ulteriore accrescimento delle disuguaglianze. È una concezione evidentemente tagliata con l’accetta, che evidenzia i limiti politici e culturali di Truss, ma a cui la premier appare incapace di sottrarsi.
C’è però, probabilmente, anche una componente caratteriale a giocare un ruolo in questa ostinazione: la fascinazione dell’intervento radicale, del va banque! o dell’azzardo politico, in cui sinora era stata fortunata, ma che questa volta le ha giocato e le sta giocando un brutto scherzo. Agendo in questo modo, tuttavia, Truss non pare incarnare la leader in grado di guidare il Regno Unito fuori dalle secche delle conseguenze della Brexit. Il già ridotto capitale politico di cui godeva, subito dopo la sua elezione, pare rapidamente dilapidato. Si diffonde nel Paese l’idea che non sappia bene che pesci pigliare, al di fuori delle sue ricette estreme. Non è difficile pensare che la precipitosa marcia indietro appena compiuta condanni il duo Truss-Kwarteng a subire una pressione da parte dell’opinione pubblica ancora maggiore nel prosieguo della loro azione di governo; e – se sembra che per ora abbiano salvato la loro posizione, anche perché da poco entrati in carica – ben pochi errori saranno ora loro perdonati in futuro.
L’esordio certo non fa ben sperare, e la barchetta su cui arrancano in un mare periglioso, il primo ministro e il cancelliere dello Scacchiere, come irride la vignetta sulla copertina dell’ultimo numero dello “Economist”, è a rischio di affondare. L’eventuale caduta di Truss rappresenterebbe, però, la conclusione ingloriosa di un’avventura politica dai tratti estremamente discutibili. E potrebbe contribuire a minare ulteriormente la stabilità di un Paese che ha cambiato quattro primi ministri negli ultimi sei anni.