Segretario De Palma, i dati sulla situazione dei comparti produttivi sono di nuovo preoccupanti, dopo un periodo di importante ripresa dell’industria manifatturiera. Le agenzie di rating hanno tagliato le stime di crescita dell’Italia. Siamo alla vigilia di un’altra recessione? La macchina industriale rischia di fermarsi?
Tutti i segnali vanno in questa direzione. Le fermate nella siderurgia, l’andamento negativo del mercato dell’automotive, l’incertezza del mercato dell’energia, l’aumento dell’inflazione e del costo del denaro, sono le premesse di una recessione che rischia di provocare danni irreparabili al sistema industriale italiano e alle lavoratrici e ai lavoratori. L’Italia rischia di essere in Europa un vaso di coccio tra vasi di ferro. Il piano straordinario della Germania di duecento miliardi, il costo contenuto dell’energia e la nazionalizzazione dell’azienda dell’elettricità, Edf, in Francia, i sostegni alle politiche di investimento e programmazione dei singoli Paesi europei, sono essenziali per la tenuta del sistema industriale; la mancanza di tutto ciò, in Italia, ci espone, ci rende fragili anche di fronte ai cambiamenti imposti dalla transizione per il clima. Il lavoro sta difendendo l’economia e l’industria in una condizione di solitudine. Confindustria e governo non si assumono la responsabilità del declino del Paese.
La Confindustria lancia l’allarme su un possibile “tsunami” industriale in autunno. Al ministero sono aperti decine di tavoli di crisi che coinvolgono almeno 70mila posti di lavoro, ma c’è chi parla di cifre che si moltiplicheranno con la stretta sui costi dell’energia. Molte aziende minacciano la chiusura. Siamo di fronte ad una drammatizzazione voluta? Qual è la situazione reale?
Nel 2021, quindi prima del conflitto russo-ucraino, il prezzo del gas è aumentato del 40%. Essendo il gas la fonte primaria di produzione dell’energia elettrica nel nostro Paese, quest’ultima è arrivata a costare, nel mese di agosto 2022, 532 euro per megawattora. Nella siderurgia, le imprese hanno reagito utilizzando il massimo di flessibilità negli impianti, prolungando le fermate estive a quattro-cinque settimane, ricorrendo alla cassa integrazione, che impatta negativamente sui salari delle lavoratrici e dei lavoratori. I settori energivori, in particolare siderurgia e metallurgia, sono a forte rischio di ulteriori fermate. Se l’eccesso di drammatizzazione può esserci stato in attesa di misure pubbliche sui costi, oggi pesa anche un rallentamento oggettivo della domanda, che rende indispensabili decisioni di politiche industriali che vadano ben al di là dei bonus. Si tratta di scelte strategiche sulla “sovranità” energetica e industriale del Paese, a cominciare dalla separazione dei costi del gas da quelli energetici, sostenendo il ricorso alle fonti rinnovabili, industrializzando la filiera delle produzioni sostenibili.
Nella lista delle nuove crisi non ci sono solo le aziende energivore. Quali sono i settori del comparto metalmeccanico più in difficoltà? E che cosa stanno facendo i grandi gruppi come Stellantis (ex Fca)?
Il management di Stellantis ha avviato una grande riduzione dei costi e della forza-lavoro, che ha coinvolto sia la produzione sia gli enti centrali, dove si fa ricerca e sviluppo, con l’uscita complessiva di cinquemila lavoratori in due anni. A oggi si continua ad andare avanti sito per sito, senza un quadro complessivo del piano industriale di Stellantis, non ci sono garanzie sull’occupazione, e questa situazione coinvolge anche le aziende della componentistica che non hanno prospettive. Lo vediamo molto chiaramente con quello che sta avvenendo a Melfi, dove l’accordo del giugno 2021 è di fatto disatteso. Sono pochissime le aziende che hanno acquisito commesse sui nuovi modelli, e la maggior parte stanno esaurendo gli ammortizzatori sociali, tanto è vero che la stessa Marelli ha fatto richiesta di un ulteriore periodo in deroga. A Mirafiori verrà portato un nuovo modello di cambio per veicoli ibridi, e ci sarà lo smontaggio dei veicoli per il riciclo dei componenti e materie prime: una proposta portata avanti dalla Fiom nel rapporto con le istituzioni. Ma quanto questo darà risposte reali e positive ai lavoratori, con l’azzeramento degli ammortizzatori sociali, è tutto da vedere. A oggi, anche a Termoli, dove dovrebbe sorgere la “fabbrica di batterie”, non c’è un accordo sulla transizione, mentre alla Vm di Cento sono stati annunciati trecento esuberi, e negli stabilimenti di Cassino e Pomigliano si lavora a singhiozzo.
In molti lamentano la mancanza di una politica industriale nazionale, mentre vari osservatori mettono l’accento sull’assenza di visione da parte dei partiti. Mancano cultura e prospettiva d’impresa?
Sì, nonostante le disponibilità economiche del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza), non c’è una visione prospettica dell’industria. Sono oltre vent’anni che i vari governi non mettono in campo politiche industriali in grado di affrontare i cambiamenti attraverso gli investimenti, a partire dal settore dell’automotive. Altri Paesi dell’Unione europea, penso a Francia e Germania, hanno piani industriali specifici. La globalizzazione dei mercati e della catena industriale che abbiamo conosciuto è entrata in crisi con la pandemia, e oggi con la guerra in Ucraina e le tensioni in Asia, a Taiwan, si sta determinando la ri-continentalizzazione delle produzioni e dei mercati. È necessario che l’Italia recuperi l’apertura di un confronto tra imprese, governo e sindacati sui punti strategici dell’industria, e negozi in Europa una politica energetica e industriale comune, che si ponga l’obiettivo di salvaguardare il clima e l’occupazione.
Oltre ai problemi legati alla guerra e alla corsa del prezzo del gas, e in generale dell’energia, il sistema produttivo deve affrontare la sfida epocale della transizione digitale ed ecosostenibile. Con la riconversione e le innovazioni, in termini di sostenibilità ambientale, si potrebbe fare tantissimo. Nei vostri settori la questione diventa centrale, basti pensare all’ex Ilva e alla siderurgia in generale. Che cosa si sta facendo? Ci sono esempi positivi a cui ispirarsi? Quali sono oggi le buone pratiche nell’industria italiana?
Noi sosteniamo una linea di de-carbonizzazione che non si traduca in de-industrializzazione. La sostenibilità delle produzioni può e deve essere assicurata attraverso il ricorso a una molteplicità di interventi d’innovazione nei processi e nei prodotti. In siderurgia, per esempio, alcune imprese hanno iniziato a diversificare le fonti di approvvigionamento energetico, con contratti a medio-lungo termine con fornitori di energia da fotovoltaico ed eolico; altri stanno sperimentando la sostituzione del coke metallurgico con residui di lavorazioni plastiche; altri ancora, come nel caso dell’ex Ilva, stanno ipotizzando di combinare altiforni e forni elettrici alimentati a idrogeno. Si tratta di una transizione complessa, con tempi necessariamente medio-lunghi, indispensabile per salvaguardare uno dei settori strategici per l’insieme della manifattura. Proprio per questo, sosteniamo la necessità di una regia pubblica di questi processi – e anche un intervento diretto nella gestione quando necessario. I lavoratori non possono pagare la transizione più di quanto non l’abbiano già pagata.
Nella storia d’Italia imprenditori coraggiosi e visionari, come Adriano Olivetti (che nel sindacato è stato amato e odiato), sono una rarità, così come sono ancora rari gli esempi di intervento statale innovativo dopo la fine delle Partecipazioni statali. Quale rapporto tra capitale privato e capitale pubblico è pensabile? Lo Stato deve investire direttamente nel cambiamento?
Sì, perché siamo diventati un Paese del mercato senza Stato né imprenditori. Chiarisco: la classe dirigente nel nostro Paese ha assunto il mercato come unico elemento regolativo della vita economica e sociale, scelta che non hanno fatto gli altri Paesi industrializzati, i quali, invece, hanno mantenuto la partecipazione pubblica e un vincolo del capitale privato sull’industria “nazionale”. In Italia, le privatizzazioni non hanno tenuto conto della strategicità dell’industria e gli imprenditori hanno dilapidato una parte del nostro patrimonio industriale, preferendo la rendita finanziaria agli investimenti industriali. Le delocalizzazioni sono solo l’ultimo atto di un processo che ha visto la vendita a multinazionali e fondi del nostro patrimonio industriale. Dobbiamo riappropriaci delle leve della nostra economia a partire da ricerca, lavoro e industria, per poter raggiungere l’obiettivo di una giustizia ambientale e sociale. Siamo molto lontani dagli anni delle sperimentazioni comunitarie di Adriano Olivetti. Olivetti è vissuto in un tempo che aveva arrestato il ticchettio dell’atomica. In questo momento la guerra, se non fermata, potrebbe minare il percorso che ha portato alla costituzione dell’Unione europea, su cui dopo la seconda guerra mondiale si è provato a costruire non solo un mercato ma un’economia inclusiva e una società democratica portatrice di valori, come quello della pace e della crescita sociale e culturale.