Sono passati quasi trent’anni dagli storici accordi di Oslo del 20 agosto 1993, grazie ai qualisi erano poste le basi per arrivare alla soluzione “due Stati due popoli”, che avrebbe messo fine al lungo conflitto tra israeliani e palestinesi. In realtà, da allora, tra l’assassinio nel 1995 del premier laburista Yitschak Rabin – uno dei tre firmatari dell’intesa insieme al presidente Simon Peres e al leader dell’Olp, Yasser Arafat –, il rafforzamento dell’organizzazione islamica Hamas, considerata ancora oggi terroristica, e la riduzione ai minimi termini del Partito laburista, fautore di quegli accordi, quest’ipotesi è ormai finita nel dimenticatoio, e non è più esattamente in cima alle preoccupazioni della comunità internazionale. Per questo, era apparsa come straordinaria la recente affermazione del premier israeliano Yair Lapid, leader del partito di centro Yesh Atid (“C’è un futuro” in ebraico), lo scorso 24 settembre, in occasione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite: “Un accordo con i palestinesi fondato su due Stati e due popoli è la cosa giusta per la sicurezza e l’economia d’Israele, e per il futuro dei suoi figli”. Un appello sulle cui ragioni è lecito porsi degli interrogativi, visto che in un Paese spostato sempre più a destra un richiamo del genere, a eccezione di alcune minoranze, non poteva trovare alcun riscontro positivo, come poi è stato confermato. A cominciare dall’inossidabile quanto impresentabile Bibi Netanyahu, leader dello storico partito di destra Likud, che ha subito respinto l’idea: perché in ogni caso un ipotetico Stato palestinese sarebbe per definizione un covo di terroristi, e dunque l’idea ormai non può in nessun modo essere presa in considerazione.
Paradossalmente, secondo alcuni osservatori, un’ulteriore opposizione non detta potrebbe arrivare dal presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, ormai incapace di gestire e di tradurre politicamente le nuove e continue proteste che da tempo scoppiano in Cisgiordania. Maḥmūd Abbās – altro nome del leader palestinese –,87 anni, in carica dal lontano 2005, non vedrebbe di buon occhio il cambiamento di uno stato di cose che, alla fine, gli è favorevole considerando anche che una possibile ripresa dei colloqui, in un futuro imprecisato, non potrà non includere Hamas – la quale si è tenuta ben distante dall’operato del jihad nella Striscia di Gaza –, senza la quale ogni dialogo, piaccia o no, sarebbe destinato al fallimento.
Resta il coraggio insito nelle parole di Lapid, secondo alcuni suggerite dalla Casa Bianca, pronunciato in un luogo così autorevole come il Palazzo di vetro. Qualora il premier vincesse alle prossime elezioni anticipate, fissate per il primo novembre – le quinte, dopo poco più di tre anni –, alle sue parole dovrebbero seguire i fatti. Se invece perdesse, il tema “due Stati due popoli”, dopo decenni, sarebbe comunque tornato nell’agenda politica israeliana. Le parole di Lapid sono state pronunciate, appunto, nel bel mezzo dell’ennesima campagna elettorale.
Il 20 giugno scorso, infatti, il premier Naftali Bennett si è dimesso; il 30 è stata sciolta la Knesset, il parlamento dello Stato ebraico, e al suo posto è subentrato Lapid, che ha indetto il nuovo appuntamento elettorale. Le ragioni della crisi sono molteplici, legate anche a una singolare quanto problematica eterogeneità della coalizione, nella quale per esempio, per la prima volta, era presente un partito arabo-israeliano.
Tutto è iniziato lo scorso aprile, in occasione dell’uscita dalla maggioranza della parlamentare Idit Silman, esponente della formazione di destra Yamina, la stessa di Bennett, che aveva provocato la perdita di un seggio della maggioranza dell’esecutivo alla Knesset – da 61 a 60 –, che sosteneva il governo. In un primo momento le ragioni ufficiali, che starebbero dietro la sua decisione, sono state considerate tutte interne alle complicate tradizioni religiose ebraiche – ma in realtà avrebbero dietro un preciso interesse politico.
La parlamentare aveva mostrato la sua insoddisfazione nei riguardi del ministro della Salute, Nitzan Horowitz, del partito di sinistra Meretz. Quest’ultimo intendeva applicare la sentenza dell’Alta corte di giustizia riguardo all’introduzione dei cibi lievitati (chametz) negli ospedali, anche durante il periodo di Pasqua: cibi il cui consumo (secondo la legge religiosa ebraica) è solitamente proibito proprio a Pesach. Ma in realtà le ragioni si sono subito rivelate molto più prosaiche. In caso di vittoria, Netanyahu le avrebbe garantito un posto nelle liste del Likud, oltre al ministero della Salute. Così, malgrado l’annullamento di questa decisione, non è stato possibile evitare la crisi, anche perché, nel frattempo, si sono aggiunti altri problemi.
Da un lato, gli ennesimi scontri nella Spianata delle moschee tra manifestanti palestinesi e polizia israeliana, che hanno portato la Lista araba unita al congelamento delle sue attività all’interno dell’esecutivo. Dall’altro, l’applicazione della legge israeliana, che favorisce un ulteriore insediamento dei coloni della Cisgiordania, ha portato la parlamentare del Meretz, Rinawie Zoabi, a non votare il provvedimento, poi bocciato dalla Knesset con 58 voti contrari e soli 52 a favore.
La nuova e noiosa campagna, l’ennesima, si sta svolgendo con toni e previsioni sostanzialmente identici a quelle precedenti. Ancora una volta, il punto di riferimento è l’ex premier Netanyahu, da molti considerato come il mandante morale dell’assassinio di Rabin, e alle prese, dal 2019, con incriminazioni e processi per corruzione, frode e abuso d’ufficio per avere favorito aziende e imprenditori di sua conoscenza. Da queste accuse, almeno per il momento, è sempre uscito indenne, senza perdere alcun consenso, in quella che potremmo definire una “italianizzazione” della politica dello Stato ebraico. Anzi, ieri come oggi, le elezioni israeliane si sono trasformate in una sorta di referendum pro o contro Bibi, come viene chiamato l’ex premier. Insomma, un Paese spaccato a metà non più da una sana alternanza destra/sinistra, con un Likud come una volta più moderato di quello attuale e i laburisti, ma da un centrosinistra e un’estrema destra corrotta e “sovranista” – se possiamo utilizzare questo termine per lo Stato ebraico.
Dall’inizio della campagna elettorale, i sondaggi sono rimasti sostanzialmente stabili, continuando a dare favorita la coalizione presieduta da Netanyahu, la quale potrebbe prendere 59 seggi contro i 56 dell’altro blocco. La campagna elettorale per questa nuova chiamata alle urne, comunque, fatica ancora a entrare nel vivo, sebbene la frustrazione degli elettori e delle elettrici non condizioni più di tanto l’affluenza, che viaggia sempre tra il 65-67 e il 70% dell’elettorato. All’orizzonte si profila soltanto una possibile bassa partecipazione al voto della comunità araba, a scapito delle liste arabe, già minate da una cronica rivalità interna, e a tutto vantaggio del Likud. Quanto il voto potrà essere condizionato dai drammatici avvenimenti bellici, difficile a dirsi. Anche se Tel Aviv ha finora evitato di aderire alla politica delle sanzioni contro la Russia, cercando di mantenere rapporti equilibrati tra Kiev e Mosca, gli effetti del conflitto in corso si fanno sentire sull’economia israeliana e sulle esigenze primarie della cittadinanza. Tanto da ridimensionare le consuete preoccupazioni della popolazione dello Stato ebraico, sempre in ansia per il perenne stato di guerra che accompagna il Paese, senza che nessuno seriamente pensi a porvi rimedio.