Gli accordi di pace – firmati nel 2016 tra il governo colombiano, guidato da Juan Manuel Santos, e la guerriglia delle Farc – prevedevano l’avvio di una riforma agraria come strumento necessario per eliminare definitivamente le cause di conflitti che hanno afflitto il Paese. Quello della concentrazione delle terre in mano alle oligarchie, che controllano anche l’economia estrattiva e il commercio, è un effetto che risale alla conquista spagnola, che impose il proprio modello economico sulle forme di organizzazione tradizionale indigena poggianti su proprietà comunitarie.
La conseguenza è che, ancora oggi in Colombia, lo 0,4% della popolazione possiede il 46% della terra coltivabile, mentre degli 11,3 milioni di ettari che potrebbero essere destinati all’agricoltura, solo 3,9 milioni sono attualmente utilizzati. Questa realtà fa sì che il 70% della sicurezza alimentare non derivi dai grandi proprietari terrieri, ma dall’agricoltura familiare, costringendo il Paese a importare dall’estero tra i tredici e i quattordici milioni di tonnellate di cibo all’anno per procacciarsi il restante 30% di quello che consuma. Tenuto conto dell’estensione delle aree agricole, la Colombia potrebbe raggiungere una produzione sufficiente a soddisfare le proprie necessità, senza dover ricorrere all’importazione, se solo fosse in grado di modificare una realtà che si è andata consolidando nel tempo, e che di fatto ostacola lo sviluppo economico, accentuando le disuguaglianze alla base delle violenze.
Il fenomeno dell’occupazione delle terre si manifesta in modo intermittente da decenni, da quando, verso la metà del secolo scorso, le organizzazioni contadine hanno acquisito seguito nelle zone rurali, riuscendo a organizzare i contadini. Il risultato di queste mobilitazioni è stato generalmente modesto sul piano dell’avanzamento verso una riforma agraria, contrastata storicamente dalla destra, fino a poco tempo fa politicamente egemone. Non è certo un caso che l’amministrazione di destra di Iván Duque, che ha preceduto quella dell’attuale presidente Gustavo Petro, si sia sempre detta contraria agli accordi di pace e a tutto ciò che essi comportavano.
Così quello che, per i negoziatori di allora, doveva essere il perno del nuovo sviluppo che si era pensato per il Paese – l’attesa riforma agraria, appunto – è rimasto lettera morta; e la storia della Colombia ha continuato a scorrere sulla scia di una violenza che ha visto contrapporsi le guerriglie alle formazioni paramilitari di estrema destra. In campagna elettorale, Petro ha posto con forza il problema della mancata riforma agraria. Non poteva essere diversamente, provenendo quella proposta da un uomo che aveva partecipato alla guerriglia. Petro ha chiarito che, qualora avesse vinto, il suo governo avrebbe puntato sull’autosufficienza alimentare, e perfino sull’esportazione delle eccedenze agricole, ovvero su una riforma agraria che restituisse dignità al lavoro contadino, prevedendo la donazione delle terre improduttive. Ciò avrebbe consentito, secondo le promesse, di trasformare l’agricoltura nel nuovo petrolio dell’economia colombiana. Con la “pace totale” come scopo, Petro ha fatto sue le raccomandazioni provenute dalla Commissione della verità, prevista dagli accordi del 2016, la quale, per quanto riguarda la questione agraria, pose come obiettivo prioritario la distribuzione di almeno tre milioni di ettari di terra ai contadini che ne sono privi, indirizzandoli verso un tipo di agricoltura rispettosa dell’ambiente.
La vittoria di Petro ha creato una forte attesa di cambiamento in tutto il Paese, alla quale il presidente finora è sembrato corrispondere, imprimendo al suo governo un ritmo accelerato. È quindi del tutto naturale che abbia creato una forte aspettativa anche nei movimenti contadini, che da qualche tempo hanno intensificato le occupazioni delle terre, con il proposito di spingere il governo ad attuare i suoi progetti in tema di riforma agraria.
Ciò accade mentre l’esecutivo appare impegnato prioritariamente a far approvare il progetto di riforma tributaria entro la fine dell’anno in corso. Una legge su cui conta molto per combattere le disuguaglianze sociali, grazie alla quale verranno introdotte una tassazione progressiva per le persone fisiche e nuove imposte per i settori che risultano più impattanti sul piano ambientale. Il governo ha accelerato anche sul ristabilimento delle relazioni diplomatiche con il Venezuela e sulle trattative di pace con i gruppi armati ancora operanti nel Paese.
Quello della riforma agraria è da sempre un tema al quale non si è data soluzione, rimanendo la terra appannaggio delle oligarchie. Non è un caso, quindi, che il cambiamento proposto da Petro sia stato premiato dal voto dei “nadie”, quella moltitudine composta in buona parte da afrodiscendenti e da indigeni, che da decenni aspettano una riforma agraria grazie alla quale vedere riconosciuti il proprio diritto alla terra e una nuova dignità di vita. In massa, hanno votato Francia Márquez vista come una di loro, una donna di origine africana e contadina, che si è spesa per difendere la terra ricevendo in cambio minacce di morte. E Francia ha portato in dote quei voti a Petro.
Ora, a meno di due mesi dall’insediamento della nuova amministrazione, i movimenti contadini hanno intensificato le occupazioni per spingere il governo a mantenere le promesse. In tal modo, in questo momento di avvio, quando Petro nei sondaggi gode di un incredibile favore popolare pari al 69%, i problemi per il neopresidente, più che dall’opposizione, sembrano giungere proprio da chi lo ha supportato e che non accetta di aspettare. Mentre il governo deve affrontare il problema della riforma agraria in una situazione difficile, dal momento che non esiste nemmeno un catasto aggiornato delle proprietà.
La sua vice, Francia Márquez, ha cercato di calmare gli animi. “Non accettiamo e rifiutiamo, e chiediamo a coloro che oggi stanno invadendo in modo violento o inappropriato le proprietà private in tutto il Paese, di astenersi dal continuare in questa pratica” – ha detto Márquez. Ma le sue parole non hanno prodotto un apprezzabile risultato, dal momento che le occupazioni continuano. E il ministro della Difesa ha minacciato di fare uso delle forze dell’ordine per proteggere la proprietà privata delle terre. Un’uscita dura, un ultimatum non proprio in linea con un esecutivo progressista, anche se il governo sta cercando di fare di tutto per evitare di entrare in una logica di scontro con gli occupanti, che sarebbe letale per la sua immagine.
Il direttore della Agencia Nacional de Tierras, Gerardo Vega – un ex guerrigliero dell’Esercito di liberazione popolare di ispirazione marxista-leninista, che ha assunto la carica lo scorso 8 settembre –, preme affinché la minaccia dell’uso della forza contro le occupazioni rimanga tale, e affinché si avviino tavoli di negoziazione. In ciò rispecchiando quella che è la cifra della prassi politica di Petro: il dialogo. La sua proposta è che lo Stato riconosca il diritto di proprietà ai contadini che lavorano terreni da dieci o quindici anni. Mentre insiste sulla necessità di dialogare con quanti hanno occupato ultimamente. Vega ha rivelato che il governo ha intenzione di adempiere agli impegni assunti con l’Accordo di pace con le Farc, e pensa di assegnare tre milioni di ettari alle famiglie senza terra, o con scarso accesso ad essa, e di reperire altri sette milioni di ettari che dovranno rientrare nella progettata riforma agraria.
Sta di fatto che sulla spinta delle occupazioni di terre, il governo ha risposto nei giorni scorsi accelerando l’avvio del suo progetto di riforma agraria. Preoccupato dalle reazioni degli allevatori, le cui terre sono esposte al pericolo di essere occupate. Una reazione che per certi versi può far temere la rinascita di organizzazioni paramilitari, come già successo in passato. Innescando così un processo che non farebbe che alimentare quella violenza e quella illegalità, a cui il nuovo esecutivo vuole porre fine.
Il governo ha annunciato di volere consegnare un totale di 680.000 ettari di terreno – entro il 15 novembre di quest’anno, in diciannove dipartimenti – a contadini, comunità indigene e afro. Mentre la nuova ministra dell’Agricoltura, Cecilia López Montaño, ha sottolineato che “la massiccia titolazione delle terre è un riflesso dell’impegno del governo per la riforma agraria e il rispetto dell’accordo di pace”.
Nonostante le accuse di castro-chavismo che gli sono state rivolte durante la campagna elettorale dalle destre, e pur contemplando la Costituzione colombiana la possibilità di esproprio, Petro farà fronte alla necessità di terra ricorrendo ad acquisti di terreni improduttivi. Imponendo più tasse a quei proprietari che non vorranno venderli, o obbligandoli a realizzare progetti che mettano a frutto i loro terreni. Incalzato dalle grandi aspettative che ha generato nel Paese, Petro sa di dover dare risposte a chi l’ha votato, al fine di mantenere alta la spinta popolare necessaria al cambiamento. Un difficile equilibrio e una corsa contro il tempo, per evitare la nascita di fenomeni di delusione o riflusso che avrebbero l’effetto di frenare o arrestare definitivamente ogni riforma.
Il 25 settembre, l’opposizione è scesa in piazza in venti città della Colombia, per protestare contro l’aumento dei prezzi della benzina, l’invasione delle terre e le riforme fiscali, del lavoro e della salute. È stata la prima protesta da quando Petro ha assunto la presidenza, e le manifestazioni più affollate sono state quelle di Bogotà, Cali, Medellín e Barranquilla. A Medellín, alcuni giornalisti di una televisione locale sono stati aggrediti da manifestanti di estrema destra. Le marce sono state di tutti i tipi, di quaranta, cinquanta, cinquecento persone, fino a diverse migliaia in piazza per esprimere la propria contrarietà alle scelte del governo, comprese quelle riguardanti la “pace totale” e l’annunciato cessate il fuoco multilaterale con vari gruppi armati che si sono avvicinati alle proposte dell’esecutivo. “Non più Petro”, “stiamo andando fuori strada”, “vuole porre fine a tutto” – sono stati gli slogan più ricorrenti nella capitale.
In conclusione, però, la “grande marcia nazionale” contro il governo non sembra impensierire più di tanto il presidente. Petro, twittando una foto della Plaza de Bolívar, mezza riempita da coloro che hanno marciato a Bogotà, ha commentato: “Il vostro diritto di esprimervi sarà sempre rispettato. Ma avremo sempre il diritto di informare quando ci sia disinformazione. In generale, le marce non hanno registrato violenza”.