Non si chiedeva molto al Partito democratico e al suo gruppo dirigente postdemocristiano. Non di rinverdire i fasti progettuali dei convegni di San Pellegrino degli anni Sessanta; non certo di avere un quadro chiaro intorno alla dinamica delle classi sociali in Italia; e neppure di avviare un’analisi sul perché – da quando c’è – il Pd perde regolarmente le elezioni o non le vince come dovrebbe (è il caso della segreteria Bersani e della sua coalizione, spostata appena leggermente a sinistra, nel 2013). Si desiderava soltanto che, sulla base di una qualche capacità manovriera (appresa da uno come Letta, magari, fin dagli anni giovanili nell’Azione cattolica), ponessero il Paese al riparo dall’onda nera che faceva seguito (e i segnali c’erano tutti, provenienti dai sondaggi così come dall’agitazione reazionaria e bottegaia nel momento più buio della pandemia) all’onda gialla del 2018, che aveva visto un agglomerato qualunquistico, come i 5 Stelle, arrivare a sfiorare il 33% dei voti. Capacità manovriera significherebbe, poi, abilità politico-tattica nel proporre una coalizione di governo dotata di un programma credibile.
Nulla di tutto questo. Il Pd di Letta e Franceschini si è sdraiato sul governo Draghi, nato da un’operazione di palazzo propiziata dal loro stesso ex segretario Renzi, dimenticando che prima c’era stato un governo Conte 2 che non si sarebbe voluto far cadere, e intorno a cui si era andato costruendo un rapporto privilegiato con un Movimento 5 Stelle in via di trasformazione in qualcosa di diverso dallo scomposto agglomerato qualunquistico iniziale. Non un partito di sinistra, certo no – ma una formazione politica che, sia pure perdendo pezzi, confermava il suo radicamento nel Paese, soprattutto in quelle trascurate regioni del Mezzogiorno, delle quali i cacicchi del Pd (vedi De Luca in Campania), con il loro collaudato sistema di potere, stentavano ormai a reggere lo storico malessere.
Ora – in una conferenza stampa fiacca e priva di proposte almeno quanto l’intera campagna elettorale – Enrico Letta ha annunciato un lentissimo congresso da tenere nei primi mesi del 2023 (probabilmente in marzo), in cui lui non si presenterà come candidato. Anziché accelerare, il segretario del Pd rallenta: nessuno dei nodi di lunga data del partito – a cominciare da quello della sua inesistente identità – sarà affrontato; solo il nome del futuro segretario potrà venire fuori da un congresso così anestetizzato. Mentre in parlamento e nel Paese capiterà di tutto.
A questo punto, si può scrivere con tranquilla coscienza che tanta flemma è figlia unicamente della fessaggine di un gruppo dirigente, che non si rende conto di stare ballando su un limite al di là del quale c’è la pura e semplice dissoluzione del partito. Ma ci sarebbe da preoccuparsi per la fine del Pd? Se questo partito – nato male e vissuto peggio, quantunque pur sempre dotato di una percentuale del 19% – venisse meno, scomponendosi in non si sa quanti più piccoli frammenti (come mostra l’esperienza della improvvisata unità elettorale tra Renzi e Calenda, anch’essa nata come un surrogato iper-centrista del Pd)?
Sono queste le domande da porsi nell’immediato. Le considerazioni molto ben sviluppate da Michele Mezza nei suoi editoriali (vedi qui e qui) fanno parte di un’altra storia: quella di una sinistra da immaginare, da costruire più che da ricostruire, intorno a un conflitto sociale che, negli anni, si è fatto via via sempre più opaco e nascosto. È evidente che non si potrà venire fuori da un’egemonia di destra (nelle sue varie declinazioni) fino a quando nelle regioni del Nord del Paese dominerà – come da una trentina d’anni a questa parte – un blocco sociale corporativo “dei produttori”, formato da padroni e padroncini che hanno davanti non dei lavoratori, pronti alla rivendicazione e alla lotta, ma dei “collaboratori” proni a qualsiasi forma di servitù volontaria. Ed è ancora più evidente che questa forza – liberata, anche grazie a delle proposte programmatiche ad hoc, dalla connivenza con i cosiddetti datori di lavoro – dovrà trovare un raccordo, ideale e politico, con le nuove figure, per lo più precarie, del mondo della trasformazione cognitiva della produzione, composto da tecnici e intellettuali (perfino da quelli annidati in università rese ormai sempre più oasi di un precariato tardo-giovanile “di lusso”, basato su patrimoni ereditati dai tempi del benessere). Infine, nel blocco sociale che verrà, andranno inclusi gli stessi pensionati dei centri delle città, i “percettori di spesa pubblica” che oggi votano per il Pd, e domani potrebbero essere presi da un rinnovato fremito di vita a sinistra.
Tutto ciò è chiaro. Ma altrettanto chiaro è che non c’entra nulla con le sorti del Pd odierno. Tutt’al più sarebbe qualcosa da lanciare come proposta di analisi e di riflessione all’interno di una delle possibili sue conseguenze, nel senso di uno di quei frammenti di cui sopra. Un esito che non si sa se augurarsi o temere: perché da un’eventuale dissoluzione del Pd potrebbe uscir fuori anche semplicemente il nulla.
Si veda ciò che è accaduto con la diaspora di Rifondazione comunista, qualche anno fa. Una miriade di gruppi e partitini, tra loro in diuturna lotta e poi riunentisi in precarie alleanze elettorali fallimentari, tutti o quasi avvelenati dal risentimento e dal “populismo di sinistra”, euroscettici quando non proprio nemici dell’Unione europea, disposti a preferire un governo Meloni, perché sovranista, al centrismo tecnocratico di un Draghi.
Qualcosa di non troppo dissimile potrebbe accadere se il Pd si dissolvesse. Come pure la riapertura di un orizzonte di sinistra, socialista ed ecologista, sarebbe possibile – specie se contemporaneamente cominciasse a muoversi qualcosa nella società. Intanto, però, Letta e i suoi cercano di addormentare il gioco, in ciò soltanto degni eredi della cultura politica democristiana.