In Germania la Linke da tempo non navigava in buone acque. Segnali estremamente preoccupanti erano già venuti l’anno scorso da una tornata elettorale, che aveva visto ridimensionato il peso del partito (rimasto sotto il 5%) e ridursi la rappresentanza parlamentare a uno sparuto drappello di 39 deputati, conquistati a fatica con il mandato diretto di circoscrizione. Le sirene del declino hanno risuonato potenti anche durante il contestato “compleanno” – quindici anni dalla fondazione del partito –, celebrato tra una ridda di veleni e di conflitti interni nello scorso giugno (e di cui abbiamo riferito qui).
Ora un polemico discorso al Bundestag di Sahra Wagenknecht, figura storica dell’anima più radicale del partito, rischia di accelerarne il processo di decomposizione, fino alla possibile scissione. Wagenknecht, nel suo intervento dello scorso 8 settembre, è andata giù pesante: ha messo in ridicolo l’azione politica della “coalizione semaforo”, tacciandola di essere “il governo più stupido d’Europa” dato che avrebbe in pratica tagliato il ramo su cui era seduto con le “fatali sanzioni” alla Russia: “Il problema più grande è la vostra grandiosa idea di scatenare una guerra economica senza precedenti contro il nostro più importante fornitore di energia” – ha detto; e ha proseguito affermando senza mezzi termini che “la Germania ha scatenato una guerra economica” di cui pagherà le conseguenze. Inoltre ha precisato: “Ovviamente la guerra in Ucraina è un crimine, ma quanto è stupida l’idea che si possa punire Putin spingendo milioni di famiglie tedesche nella povertà e distruggendo la nostra economia mentre Gazprom fa profitti record?”.
Le dichiarazioni hanno scatenato un putiferio, sia per le reazioni indignate degli altri partiti, sia all’interno della stessa Linke. Molti deputati hanno espresso il loro disaccordo. In particolare, i presidenti del partito, Janine Wissler e Martin Schirdewan, hanno duramente criticato il discorso; ha preso le distanze anche Bodo Ramelow, presidente della Turingia, e alcuni membri hanno chiesto la testa di Wagenknecht, chiedendo che simili interventi non siano più fatti a nome del gruppo parlamentare.
La base del partito, del resto, è da tempo molto divisa sulla questione della guerra; e la leadership del gruppo parlamentare ha dovuto ammettere che il discorso non ha scatenato solo indignazione, ma ha trovato anche un certo seguito. Una petizione online, intitolata “Mi piace il discorso di Sahra Wagenknecht!” è stata in pochi giorni firmata da oltre undicimila persone. Va altresì ricordato che una parte della Linke vede, nel discorso pronunciato dalla influente Sahra, una violazione delle risoluzioni del congresso di giugno, in cui la guerra della Russia contro l’Ucraina è chiaramente condannata e le sanzioni sono almeno parzialmente sostenute. Anche se – per la verità – Wagenknecht aveva votato contro la loro introduzione.
L’escalation in corso rischia non solo di dividere definitivamente il partito, ma di farlo sparire dal parlamento: per la Linke si tratta di una questione di vita o di morte. Se Wagenknecht dovesse lasciare il partito, sarebbe sufficiente che altri due deputati la seguissero per fare perdere alla Linke lo status di gruppo parlamentare nel Bundestag, dato che verrebbe meno il numero minimo stabilito per costituire un gruppo. In questo modo, si perderebbero anche finanziamenti e varie tipologie di bonus e prebende. E il seguito della Sahra non è affatto trascurabile: è questo il problema. Wagenknecht non è soltanto ritenuta una delle voci più importanti dall’opinione pubblica tedesca di sinistra, ma è anche tutt’altro che isolata: mentre alcuni parlamentari hanno preso rapidamente le distanze, altri si sono schierati saldamente al suo fianco. Otto o nove deputati potrebbero quindi decidere di lasciare e formare un nuovo gruppo. L’appello per una sinistra popolare, che Wagenknecht ha contribuito a lanciare nel maggio di quest’anno, è stato firmato da dieci membri del gruppo parlamentare.
L’impressione è che l’intero partito si stia avviando al capolinea, e che ormai siano considerazioni di tipo squisitamente materiale a continuare a tenerlo insieme. Nell’ultimo incontro della direzione, la rottura è stata per il momento in qualche modo medicata. Dopo ore di dibattito, lo storico dirigente Dietmer Barsch ha annunciato: “Abbiamo cercato di uscire ancora uniti da questa riunione. Siamo riusciti a farlo”; e il segretario parlamentare Jan Korte ha dichiarato scherzosamente, cercando di sdrammatizzare: “Non ci sono stati né morti né feriti”. Crisi dunque per ora apparentemente risolta; ma sarebbe certamente esagerato dire che nella Linke tutti si vogliono di nuovo bene.
Wagenknecht è una politica di lungo corso, non sprovvista di strumenti culturali, e certo il suo intervento al Bundestag non era tanto un’uscita estemporanea, quanto un ulteriore e calcolato strappo imposto a un partito già lacerato al suo interno tra componenti diverse, di cui la guerra ha finito per esasperare le differenti matrici. La sinistra radicale anticapitalista sta cercando la rottura con la corrente più socialdemocratica – e la sta cercando in tempi brevi, probabilmente guardando in prospettiva alle elezioni europee. La fazione capeggiata dalla Wagenknecht – che aveva messo nel mirino già da tempo la componente socialdemocratica interna e la stessa Spd in un suo libro-programma dello scorso anno, ora tradotto in italiano con il titolo Contro la sinistra neoliberale – non fa sconti, e vuole approfittare dell’“autunno caldo” che si profila per dare battaglia nelle piazze. Nonostante le profferte ufficiali di riconciliazione, nella Linke circola ormai, sussurrata a mezza voce, un’amara conclusione: “Chi vuole andarsene, deve andarsene”.