Se non si rischiasse il linciaggio a sinistra, si potrebbe dire che la solenne bocciatura della riforma della Costituzione, proposta in Cile dalla maggioranza che aveva eletto il nuovo presidente Boric, ricorda in non pochi passaggi quella, altrettanto squillante e attesa, che ha seppellito l’allora presidente del Consiglio Renzi, nel 2016. Certo, l’ispirazione e il retroterra culturale sono molto diversi. Marcatamente plurinazionale quella cilena, tutta protesa al riconoscimento dei diritti delle minoranze etniche e per la difesa dell’ambiente; intrisa di una complicata e contraddittoria alchimia istituzionale, quella voluta dal leader del Pd a suo tempo. Ma una certa cecità nel leggere i processi sociali, un illuminismo ingiustificato, e soprattutto la mancanza di una solida base di consenso che desse forma e senso allo scrollone che si pensava di dare al proprio Paese, sembrano tratti comuni.
Soprattutto congiunge le due esperienze la cruda disillusione che la sconfitta elettorale impone, mettendo un tetto basso alle ambizioni che si coltivavano. Bassissimo per Renzi, che ora trotterella nella scia di Calenda per uscire dal buio del 2% in cui era ridotto dopo la scissione dal Pd. Molto ridimensionato quello di Boric che, avendo ancora nelle orecchie l’oceanica manifestazione che aveva invaso Santiago al momento della sua elezione, pensava, forse, di poter passare all’incasso.
Il voto cileno, per ampiezza e spessore – oltre l’80% di votanti in una consultazione in cui era vietato astenersi, con solo il 38% di approvazione del testo di nuova Costituzione –, ci dice che non solo la luna di miele del nuovo presidente è finita, ma anche che lui deve analizzare a fondo i dati per capire chi era nella piazza che lo acclamava e perché gli ha voltato le spalle, se lo ha fatto, dopo pochi mesi.
Il dato che emerge con forza è che anche in Cile non esistono più rendite di posizione ideologica. La rappresentanza dei ceti popolari e produttivi è ormai un’avventura occasionale, perché – è il nodo che la sinistra in tutto il mondo stenta a comprendere, come vediamo anche in questo scorcio di campagna elettorale italiana – questi ceti sono ormai composti da figure sociali con ambizioni ibride e interessi condivisi e promiscui con l’area conservatrice e proprietaria. Tanto è vero, che solo generiche folate libertarie, che combinano la richiesta di libertà indifferenziata con una modernizzazione del Paese, alimentano svolte politiche, com’è accaduto anche in Colombia e potrebbe ripetersi in Brasile, per rimanere solo in America latina. Fenomeni che però non contrastano con il carattere ambiguo di queste masse, che condividono ambizioni e pretese di emancipazione individuale e di sviluppo territoriale con chi privilegia, invece, la conservazione dei privilegi proprietari.
Il progetto costituzionale aveva molti punti che lasciavano incerti e disorientati queste figure di lavoro produttivo sempre più individualizzato. Il riconoscimento dei diritti delle popolazioni indigene, inevitabilmente, minacciava quei residui privilegi che coltivano le aree di popolazione bianca povera, che comunque si sente insidiata dalla pressione che avverte alle spalle. Ancora una volta, l’alleanza fra i secondi (conservatori e proprietari) e i penultimi (lavoro dipendente urbano) tende a prevalere su quella fra i primi (élite intellettuali e finanziarie progressiste) e gli ultimi (immigrazione o etnie subalterne). Inoltre, un elemento che sembra del tutto ignorato riguarda proprio il valore ecologico che attraversava la nuova Costituzione. Un sistema di norme che sono state lette come vincolistiche e troppo rigide, da chi, nelle aree periferiche del Paese, soprattutto nelle regioni ghiacciate del Sud, si attende una stagione di valorizzazione del patrimonio minerario, che sembra molto ricco di terre rare, ossi preziosissimi e richiestissimi sul mercato internazionale.
Il combinato disposto tra questi timori e queste frustrazioni ha portato – anche zone che si erano pronunciate per l’elezione di Boric – a votare contro la riforma costituzionale. Tanto più che ora si apre una fase molto complessa: non rimane in vigore il vecchio testo imposto da Pinochet, e si deve comunque procedere a una revisione e rivisitazione dell’intero impianto.
Andiamo dunque verso una fase di nuova negozialità politica, in cui la sinistra guidata dal giovane presidente deve riuscire a spostare dalla sua parte i timori territoriali e corporativi, dando una forma più aggiornata e moderna all’alleanza per il progresso che non deve diventare solo un ostaggio, appunto, dei primi e degli ultimi, ma deve parlare a tutta una scala intermedia di figure, che ormai si sono svincolate da subalternità e dipendenze.