“Sebbene tassi di interesse più elevati, crescita più lenta e mercato del lavoro più debole ridurranno l’inflazione, arrecheranno anche un po’ di sofferenza alle famiglie e alle imprese. Questi sono gli sfortunati costi della riduzione dell’inflazione”. Jerome Powell, presidente della Federal Reserve, ha liquidato con queste accorate (si fa per dire) parole le diffuse preoccupazioni per gli effetti potenzialmente distruttivi di una politica monetaria restrittiva. Lo ha fatto nel suo discorso all’annuale Investor Summit di Jackson Hole, nel Wyoming, in cui ha chiarito che l’inversione di rotta della Fed sarà duratura.
Di inversione si tratta, infatti, come si evince da un malizioso riepilogo, intitolato “Valutare la sfera di cristallo di Jackson Hole” pubblicato sul “New York Times” a proposito di tutte le profezie sballate venute fuori dal prestigioso forum che riunisce banchieri centrali, investitori, politici e giornalisti. In quella sede, lo scorso anno Powell – ricorda il quotidiano statunitense – “usando nel suo discorso cinque volte la parola ‘transitoria’, ha affermato che è improbabile che l’inflazione rimanga molto al di sopra del 2%”. Risultato: “L’inflazione – fa notare il giornale – è quasi raddoppiata a un tasso annuo del 9% a giugno, dal poco più del 5% di un anno fa. Da allora si è stabilizzato, ma pochi pensano che l’inflazione tornerà presto al 2%”.
Stavolta, comunque, Powell ha messo al centro del suo discorso l’obiettivo del rientro dell’inflazione sotto il 2%: “Il ripristino della stabilità dei prezzi – ha detto – richiederà del tempo e richiede l’uso forzato dei nostri strumenti per portare domanda e offerta in un migliore equilibrio”. Proprio questo accenno al rapporto fra domanda e offerta suscita qualche dubbio sull’ampiezza dello sguardo del banchiere centrale.
Francoforte sposa la linea dura
A proposito di previsioni più o meno azzeccate, speriamo di essere perdonati dal lettore se ricordiamo che lo scorso gennaio, ben prima della drammatica escalation della guerra in Ucraina, qui “terzogiornale” lanciò l’allarme sul fatto che l’inflazione rischiava di diventare un “fenomeno di lungo periodo che potrebbe ridare fiato all’ortodossia ordoliberista”. Dal nostro angolo visuale di italiani, sottoposti all’autorità monetaria europea, più ancora della posizione assunta da Powell può rappresentare una preoccupazione, in effetti, il tenore del discorso della tedesca Isabel Schnabel a Jackson Hole. In passato distintasi come sostenitrice della linea interventista della Bce, responsabile delle “operazioni di mercato” di Francoforte, cioè della gestione del quantitative easing, messa all’indice per questo dalla pubblicistica conservatrice come una “minaccia” per i risparmiatori tedeschi, anche lei ha abbracciato la linea rigorista che si sta imponendo nella sua patria d’origine. Per Schnabel, a una linea di “cautela in linea con l’idea che la politica monetaria sia la medicina sbagliata” – per far fronte agli shock sui prezzi dal lato degli approvvigionamenti: è il caso del boom dei prezzi energetici, ma anche dei rincari dovuti alle strozzature sulle catene di fornitura globali dovute alla pandemia –, è da preferire “la politica monetaria (che) risponde con maggiore forza all’attuale ondata di inflazione, anche a rischio di una minore crescita e di una maggiore disoccupazione. Questo è l’approccio di ‘controllo robusto’ alla politica monetaria che riduce al minimo i rischi di pessimi risultati economici in futuro”. Il prossimo passo concreto arriverà dal Consiglio direttivo della Bce l’8 settembre, con la prevista riunione “monetaria” che dovrebbe fissare il rialzo dei tassi e indicare quindi la misura del “controllo robusto” che si intende esercitare sull’inflazione.
La Bce sposa la linea dura, dunque, rovesciando l’approccio post-pandemico improntato a un maggiore interventismo. Linea dura sulla quale molti osservatori, allineati con la scuola economica della “cautela” citata dalla stessa Schnabel, sollevano dubbi sulla efficacia reale di un aumento dei tassi di interesse contro un’inflazione importata. A titolo di esempio, il giudizio dell’economista italiano Emiliano Brancaccio, il cui giudizio è senza appello: “L’idea di controllare l’inflazione a colpi di aumenti dei tassi d’interesse è una fantasia horror dell’ortodossia economica, che non trova basi scientifiche adeguate e che fa enormi danni. La verità è che i banchieri centrali aumentano i tassi d’interesse per brutali ragioni di distribuzione del reddito tra le classi sociali: vogliono compensare i creditori delle perdite causate dall’inflazione”.
Banche e titoli pubblici
Quali possono essere le conseguenze per noi di un rialzo dei tassi d’interesse da parte della Bce? Tra le ricadute più facili da immaginare, l’aumento del costo del denaro per le imprese, già alle prese con una crisi drammatica di liquidità e bilanci per l’esplosione dei costi energetici, su cui il governo italiano ha fatto poco ma soprattutto l’Unione europea è in evidente ritardo (un Consiglio europeo a giugno si è chiuso di fatto con un semplice rinvio a ottobre). Conseguenze a catena – del resto previste nelle parole dello stesso Powell – con crisi aziendali e disoccupazione in crescita, quindi calo del Pil (peggioramento del parametro debito-Pil) e caduta delle entrate fiscali per lo Stato. Aumento della sfiducia nella solidità del debito italiano, sul quale si moltiplicano i segnali di speculazione, in vista di un ipotetico rischio default, quindi l’aumento dello spread fra i titoli pubblici italiani e quelli tedeschi, che indurrà le banche a cautelarsi e a utilizzare le loro risorse per prudenziali accantonamenti che sottrarranno ulteriormente denaro agli impieghi creditizi.
Schnabel: ora tocca ai governi
Naturalmente anche nell’orientamento più rigorista dei banchieri centrali, in via del tutto teorica viene avanzata l’idea di una leva alternativa per alleviare gli shock inflazionistici e monetari. “La politica fiscale – ha sostenuto Schnabel a Jackson Hole – svolgerà un ruolo importante nel rafforzare la resilienza delle nostre economie. I governi devono adattare le loro politiche al rischio di un lungo periodo di minore crescita del prodotto potenziale. Con un rapporto debito/Pil pari o prossimo ai massimi storici, la spesa dovrebbe concentrarsi sulla protezione della coesione sociale e sulla promozione di investimenti produttivi ed ecologici che contribuiranno a garantire la prosperità a lungo termine e a ricostruire lo spazio fiscale necessario per attutire gli shock futuri”.
In questo momento, è difficile pensare che sia realistico questo auspicio indirizzato ai governi europei affinché si impegnino in una stagione di cura degli investimenti green e della coesione sociale (cioè di promozione dell’occupazione e difesa o addirittura espansione del welfare); molto difficile in una fase come quella alla quale sembra avviata l’Europa, con il tragico combinato disposto fra recessione e alta inflazione, cioè con una stagione di stagflazione alle porte. Ma siccome sognare non costa nulla, in una campagna elettorale divisa fra l’agenda Draghi e le garanzie di continuità politica che la leader di destra più accreditata dai sondaggi sembra voler fornire a investitori e istituzioni internazionali, si accomodi chi crede che qualcuno da noi possa raccogliere il suggerimento, tanto benevolo quanto vago, di Isabel Schnabel.