La storia lo ha già giudicato. Michail Gorbaciov ha dato un verso pacifico e tranquillo al Novecento come “secolo breve”, consumandosi nel tentativo di salvaguardare l’essenza di un regime che non ha più trovato modo di funzionare. Le celebrazioni della sua vita – e soprattutto della traccia che lascia nel mondo – sono alluvionali. Ed è proprio questo il momento per leggere la sua traiettoria come una grande lezione per la sinistra. Achille Occhetto, nella sua improvvisata intuizione di usare la crisi gorbacioviana per trovare una nuova via al socialismo italiano, indubbiamente comprese meglio di altri il carattere di quell’esperienza. Dopo Breznev, l’iceberg sovietico doveva trovare una rotta. Andropov proponeva una soluzione cinese, cercando di tradurre nell’indolente e disincantato linguaggio russo la ricetta di Deng: “arricchitevi”. Un ritorno alla Nep di leniniana memoria, con in più la suggestione tecnologica. Dopo l’intermezzo di Černenko, l’elezione del giovane caucasico fu salutata dal coriaceo Gromyko con la famosa definizione: “lo conosco bene, sorriso suadente ma denti di acciaio”. Il dentista, però, non fu propriamente abile con il capo sovietico.
Nikolaj Ryzkov, uno dei primi collaboratori al governo di Gorbaciov, qualche anno dopo l’inizio della perestroika, quando si capì bene che le velleità riformatrici erano sul binario morto, mi raccontò, in un’intervista al Gr1, la sua versione del tentativo del nuovo segretario: “Tutto nasce con Andropov – mi disse –, quando dopo la sua elezione a segretario riunì al Cremlino la sua squadra. C’erano i giovani come Gorbaciov e io, c’era Ligaciov, allora ancora considerato un riformatore, c’era il team degli economisti del Kgb. Andropov ci raccontò questa storia: nel 1975, ci disse, come capo del Kgb inviai al compagno Breznev un rapporto riservato in cui gli descrissi l’avvio, sulla costa occidentale americana, in California, della nuova rivoluzione microelettronica che moltiplicava la potenza industriale dell’Occidente. Gli dissi che avevamo poco più di cinque anni per agganciare questo nuovo processo, altrimenti saremmo stati sonoramente sconfitti. A questo punto Andropov guardò il calendario: siamo ora nel 1982, l’Urss non ha fatto niente per recuperare il gap con gli Usa, dobbiamo trasformare una sconfitta in una ritirata condivisa”. Questa era la perestroika, concluse amaramente Ryzkov.
Gorbaciov tentò di barcamenarsi, trasformando un’anabasi in una marcia trionfale. L’illusione non ha funzionato. Il disgelo, la glasnost, il disarmo, il sorriso che conquistava l’Occidente: in patria divenne confusione, corruzione, sbandamento, avventura. Questo è il motivo per cui Gorbaciov rimane il russo più odiato a Mosca e più amato all’estero.
Il buco nero, in cui l’ultimo segretario del Pcus è caduto, è stato proprio la politica. Quali forze sociali dovevano sostenere la perestroika? Con quali vantaggi? Quali forme di organizzazione? Come governare la transizione? Domande che chi era a Mosca faceva ai suoi interlocutori russi, ricevendo come risposta immancabilmente nichevò, “niente”. Sotto il vestito, in effetti, non c’era niente.
A differenza dei cinesi, che pur vivendo la loro crisi più drammatica, in piazza Tien-an-men, proprio davanti a Gorbaciov, erano comunque riusciti a preservare l’infrastruttura politica con cui gestire il passaggio a un’economia di mercato controllata, a Mosca si procedeva per emozioni, per colpi a effetto – ma senza strategia. A Pechino, un patto sociale fra nomenklatura e neo-borghesia imprenditoriale di massa resse lo sforzo; in Russia la voragine che divideva il vertice politico da una società civile mai attivata e incoraggiata ha ingoiato tutto.
Fu proprio la vecchia annosa questione del partito a far impazzire la maionese. Quando, sotto gli strappi continui della perestroika, il campo politico si radicalizzò, con i riformatori che diventavano massimalisti e i conservatori che erano invece reazionari, Gorbaciov si trovò solo, senza nessun seguito o consenso. La farsa del golpe ne è stata la spettacolare conclusione: un pugno di mestieranti senza lucidità provò a intimorire il Paese. Più che la resistenza democratica, bastò una larga indifferenza a seppellirli. Poi Eltsin, debitamente sostenuto dai servizi americani, prese in mano il timone lasciato incustodito e iniziò il saccheggio del Paese, aprendo la strada al figuro che oggi devasta l’Ucraina. Il tutto senza politica, senza conflitto, senza un luogo in cui contendere.
Esemplare fu la caduta del Muro di Berlino. In quei giorni ero a Mosca – e nessuno del Cremlino aveva sentore di un tale evento. Eppure i segnali erano pressanti, e soprattutto lo erano i processi sociali che portavano i giovani dell’Est a premere alle frontiere per condividere, con quelli dell’Ovest, l’ebbrezza di una stagione di connessione e partecipazione senza precedenti. Due settimane dopo la caduta del Muro, Gorbaciov venne in Italia, incontrò il papa e il segretario del Pci Occhetto. Il suo messaggio era sempre lo stesso: procediamo con le riforme, il socialismo potrà tornare a respirare. In realtà, era già in terapia intensiva.
Quella lezione è rimasta ancora sospesa. Gorbaciov dovrà essere ricordato più che per la sua affabilità e per il suo caldo sorriso, con cui svuotò gli arsenali, per il fatto che ci ha mostrato cosa possa essere una sinistra senza politica, e una politica senza partito. Ricordando però la lezione di Andropov – il suo rapporto del 1975 –, come diceva Bertolt Brecht ai socialdemocratici tedeschi che litigavano sull’eredità di Marx: compagni, attenti ai rapporti di produzione. Oggi la produzione è innanzitutto potenza di calcolo, che ha sbriciolato l’Urss e isolato quel grande illusionista che fu Michail Gorbaciov.