Nei tribunali argentini, la straordinaria vicenda giudiziaria di Cristina Fernández de Kirchner, già capo di Stato e attualmente vicepresidente, è quella d’una decennale imputata di molteplici reati corruttivi che non ha mai subito una condanna passata in giudicato. Dunque, a tutt’oggi, con pieno diritto alla presunzione d’innocenza. Nell’immaginario latinoamericano (e occidentale), appare la protagonista seriale di una battaglia politica infinita, che sconfina oltre la divisione dei poteri costituzionali, e non cessa di sfibrare le istituzioni repubblicane, confermando la gravità della loro usura. Da sempre, una colpevole riottosa alla legge nel quotidiano, implacabile ritratto che ne presenta la grande e potentissima informazione conservatrice di Buenos Aires; ma anche un’icona sacralizzata della giustizia sociale di piazza, dunque di una pretesa sostanza democratica, per quel 25% (più o meno) che ogni quattro anni va alle urne per le presidenziali, ed è la chiave dell’alternanza.
Una vicenda sudamericana, sia pure per trarne opposte conclusioni: non sono soltanto i partigiani della vicepresidente a stabilire paralleli con la persecuzione subita dall’ex presidente Lula da Silva in Brasile. Incriminato, processato, condannato e rinchiuso in un penitenziario, per vedersi poi riconosciuto innocente di ogni illecito interesse personale, liberato e di nuovo largamente in testa ai sondaggi nell’ormai prossima investitura popolare al vertice dello Stato. Mentre il suo giudice, Sergio Moro, massimo eroe del perbenismo ufficiale e ministro della Giustizia di Bolsonaro, è precipitato nel vortice delle inchieste disciplinari e giudiziarie. La vicenda riflette, nondimeno, la crisi d’identità repubblicana che attraversa la cultura politica dell’intero Occidente, dal Cono sudamericano a Washington, fino a Budapest. Non proprio l’esaurimento dello “spirito delle leggi”, proposto nel Settecento da Montesquieu, ma la tergiversazione intorno alla sua sostanza: la partecipazione come amore per il bene comune, per la cosa pubblica.
Riattualizzata dall’ennesimo processo, l’ultima accusa a Cristina è di avere diretto, in quanto capo dello Stato (2007-2015), un’associazione illegale che pilotava appalti pubblici al fine di ottenere enormi arricchimenti personali. Mancano riscontri diretti, prove provate. Ma il pubblico ministero afferma che l’allora presidente Cristina non poteva non sapere, e chiede per lei una condanna a dodici anni di carcere, con l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Quest’ultima sarebbe la pena effettivamente applicabile, poiché le immunità che la proteggono – l’età anagrafica e la carica di prima senatrice – le eviterebbero comunque il carcere. È però quella che più interessa a quanti la vogliono eliminata dall’agone politico-elettorale. Se non compiaciuti, quanto meno indifferenti allo sconquasso istituzionale, politico e sociale che – a prescindere dal merito – produrrebbe l’eventuale condanna.
Le reazioni sono numerose, trasversali, autorevoli: non riducibili a rituale solidarietà di parte. Miguel Angel Pichetto, giurista, un peronista di destra che alle ultime elezioni è stato candidato alla vicepresidenza inticket con l’ex presidente Mauricio Macri, definisce “uno sgradevole eccesso” l’accusa di “associazione a delinquere”: “implica che un intero governo si sia costituito con il proposito di delinquere…”. Difficile da credere e ancor più da dimostrare. Convinti che si tratti del reiterato tentativo di eliminare surrettiziamente una protagonista del legittimo confronto politico nazionale, esprimono sostegno a Cristina i presidenti Andrés Manuel López Obrador, messicano, Gustavo Petro, colombiano, Luis Arce, boliviano. Scontato e tuttavia significativo quello di Alberto Fernández, i cui esorbitanti contrasti con il massimalismo, talvolta avventurista, di Cristina hanno fratturato la coalizione di governo a Buenos Aires, portandone al rosso vivo le contraddizioni.
Non siamo di fronte, semplicemente, a un ulteriore sfaldamento del populismo, come qualcuno ritiene. Ma, più realisticamente, a un allarmante episodio della crisi di una democrazia che, sebbene geograficamente lontana, ha luogo all’interno del sistema occidentale, nella nostra stessa sfera geopolitica. L’Argentina è tra i cinque maggiori esportatori di alimenti del mondo, e può diventare strategica anche nella produzione di energia e nuove materie prime. È uno dei Paesi chiave di un’America latina in cui vivono quasi 650 milioni di abitanti, il 76% dei quali in zone urbane e iper-connesse; vi si trova un quarto delle foreste tropicali, che concentrano il 58% della biodiversità del pianeta (Amazzonia); il 28% delle terre coltivabili; il 19% dell’acqua potabile disponibile e della capacità idroelettrica globale. Stime di specialisti delle Nazioni Unite calcolano che, nel 2021, il subcontinente americano aveva sviluppato appena il 23% delle sue potenzialità materiali.
Il populismo costituisce ormai da anni l’inciampo più frequente delle analisi sociopolitiche in Europa e negli Stati Uniti. Neanche a dire in Argentina, simboleggiato tutt’altro che a torto da Juan Domingo Perón, una delle sue maggiori figure contemporanee. E dove attorno alla metà del secolo scorso proprio un italiano – l’esule antifascista Gino Germani, poi professore alle università di Buenos Aires, di Harvard e all’Orientale di Napoli – ha sviscerato quel fenomeno dal vivo e rivoluzionato la ricerca sociologica. Il populismo, secondo Germani, è una forma di dominazione autoritaria che, nella transizione alla modernità delle società tradizionali, include gli emarginati dal sistema politico dominante. E in cui la costante autoritaria è relativa al grado di emarginazione degli esclusi. L’equivalenza populismo-fascismo è una semplificazione storicamente errata, comunque allo stato dei fatti obsoleta. Sebbene, con un sommovimento dell’assetto sociopolitico esistente, metta sotto tensione la pluralità democratica, con l’esaltazione nel popolo di un’unicità che non esiste. In conclusione, una questione a noi nient’affatto estranea.