L’aggravarsi della crisi climatica planetaria (scioglimento dei ghiacciai, innalzamento delle temperature degli oceani, incendi di superfici delle dimensioni complessive di interi Stati, disuguaglianze, guerre, povertà, siccità, ecc.) non sembra essere la preoccupazione principale degli attuali governi nel mondo. Eppure è ormai oggettivamente osservabile anche da coloro che, fino a qualche anno fa, ne negavano l’esistenza a opera dell’uomo, o la consideravano alla stregua di un accidente al pari di tanti altri. Neppure l’Unione europea appare sensibile al tragico futuro che ci aspetta: nella sua “tassonomia verde” (approvata di recente), essa ha infatti incluso l’uso del gas e del nucleare come sostenibili. Il che è palesemente falso, poiché il gas è di provenienza fossile e, bruciando, produce CO2; mentre il combustibile nucleare non è illimitato (anzi, comincia a scarseggiare), anche volendo guardare soltanto a questo aspetto della sostenibilità.
Perché, dunque, ai massimi livelli istituzionali non si prendono decisioni immediate ed efficaci per limitare, se non per azzerare, la produzione di CO2? Gli stessi accordi della Conferenza di Parigi del 2015 sul clima sono praticamente falliti, se ci si riferisce al contenimento della temperatura non oltre 1,5°C. Una risposta la dà Massimo Serafini: “Non vedo traccia né di promesse né di impegni sulle domande di giustizia climatica che molto elettorato, non solo giovane, reclama. Forse non ci credono o non sanno che fare, ma invece più probabilmente lo sanno, ma è molto complicato scontentare una potenza come l’Eni, che da un cambio del modello energetico da fossile a rinnovabile ha molto da perdere” (I rigassificatori, emblema della sordità del Pd, “il manifesto” del 13/8/2022).
Nel nostro Paese, Europa verde di Bonelli e Sinistra italiana di Fratoianni appaiono le formazioni più sensibili alle questioni ambientali, e forse non è un caso che siano partitini minori. Il Pd, invece, non si è pronunciato contro il nucleare (nonostante la vittoria dei due referendum popolari, nel 1987 e nel 2011), né, nel suo programma elettorale (che coincide con l’agenda Draghi), trova il posto che merita la lotta alla imminente catastrofe climatica: sono altre le questioni considerate più urgenti.
Allora, come affermano il recente documento degli scienziati (“Lettera-appello degli scienziati alla politica”, firmata anche dal Nobel Parisi), il Cnr in vari documenti e le massime organizzazioni che si occupano del clima (Onu, Ipcc), a cosa servono accordi politici, misure di emergenza, raccomandazioni, se poi tra pochi anni ci troveremo a vivere in un pianeta surriscaldato, con ondate di migrazioni enormi causate dalla siccità e dalla sterilità dei terreni? Se anche queste allarmate voci fossero recepite dalla politica, “chi mai si occuperà” – afferma Guido Viale – “di realizzare la conversione ecologica? La fantomatica agenda Draghi, fatta di guerre, armi, gas e grandi opere? Cingolani, che pensa solo ai gassificatori e ad allungare la vita della Ferrari? Il ministro Giovannini, alfiere dello ‘sviluppo sostenibile’ con l’Alta velocità e nuove autostrade (e ora anche con il ponte sullo Stretto)?” (Il cuore della rivoluzione verde inizia a battere dalla scuola, “il manifesto” dell’11/8/2022). Di certo, la destra potrà solo aggravare la situazione, poiché nel suo programma elettorale si prevede la realizzazione del ponte sullo Stretto, dei gassificatori, degli inceneritori, e inoltre l’uso del gas, cioè di continuare, se non di accelerare, con l’attuale modello di sviluppo.
Se non è dalla classe politica che possiamo aspettarci un cambio di rotta, restano i cittadini, le singole persone e, soprattutto, i giovani e i loro movimenti organizzati, anche se la loro capacità di critica e di intervento risulta indebolita, perché, come sostiene Sarantis Thanopolus, “la concentrazione selvaggia della ricchezza, la robotizzazione della forza lavoro e la digitalizzazione non dell’apparato logistico dell’esperienza, ma dell’esperienza stessa, hanno prodotto una precarietà occupazionale mai vista, hanno dissolto le relazioni private e sociali, hanno fatto evaporare il tempo libero e hanno fatto confluire il tempo di lavoro nel tempo folle dell’accelerazione continua, scandita dall’azione performante. Si vive al presente continuo, di conseguenza il futuro (le sue minacce e le sue potenzialità) non esiste, dal passato non si apprende niente e il lutto (il travaglio connesso alla trasformazione) è una parola brutta” (La terra brucia e la resilienza ci annienterà, “il manifesto” del 30/07/2022).
Pnrr significa Piano nazionale di ripresa e resilienza. Spetterebbe a questo piano di far fronte alla crisi climatica, incentivando le energie alternative e avviando un diverso modello di sviluppo. Ma l’esito è già osservabile: esso consente le trivellazioni per estrarre i fossili, la realizzazione dei gassificatori, la sostituzione delle auto con motore a combustione interna con le auto elettriche, e tante opere imponenti che non riusciranno a far fronte alla crisi climatica. La “soluzione” è affidata alla parola magica “resilienza” (termine preso in prestito dalle scienze metallurgiche), che significa adattamento costante al peggio, ovvero alle prossime condizioni di vivibilità che saranno difficilissime. Un atteggiamento inutilmente difensivo. Piuttosto che affrontare il problema alla radice, si propone di adattarci a questa situazione, come se fosse una calamità naturale e non l’effetto di un modello di sviluppo tendente a peggiorare.
Un atteggiamento, a ben vedere, cinico e rassegnato, poiché parte dal presupposto che non si possa rinunciare ai nostri modelli di vita – tra cui quello americano, neppure negoziabile –, dando ragione a ciò che annunciava Hans Jonas più di vent’anni fa: “Forse l’uomo non può essere portato alla ragione senza seri avvertimenti e senza reazioni già molto dolorose da parte della natura martoriata” (Sull’orlo dell’abisso. Conversazioni sul rapporto tra uomo e natura, Einaudi). O come sosteneva Goethe in L’apprendista stregone: “Degli spiriti che chiamai liberarmi più non posso”. E gli spiriti chiamati a liberarci sarebbero il progresso, la crescita, lo sviluppo, il mantra del neoliberismo che procede come un treno impazzito a folle corsa verso la distruzione planetaria.
Come possono allora piccoli partiti – quelli che almeno tentano di proporre la questione climatica nella propria agenda politica – arrestare questa marcia impazzita, che rischia di alterare gli equilibri della biosfera e, in questo modo, di distruggere le condizioni di sopravvivenza delle specie viventi? La soluzione che può venire dalle nuove generazioni – quelle non compromesse con la politica attuale, le uniche a poter capire quale sia la posta in gioco del loro incerto futuro – deve acquisire la nuova coscienza che l’ostacolo, o al contrario l’occasione, è solo la scuola.
“Le scuole” – afferma Viale nell’articolo già citato – “possono diventare un punto di accumulo delle forze necessarie a invertire l’attuale deriva, per poi riverberarsi, anche attraverso un salutare shock nelle famiglie, sui quartieri, sul territorio, sulle aziende, sulle fabbriche, sulle istituzioni. Non si può pretendere che le classi dominanti, e i governi alle loro dipendenze, cambino le loro stupide agende senza che i veri interessati a questo cambiamento dimostrino di essere capaci di farlo loro: per lo meno nel loro ambiente naturale, che è la scuola. Una scuola aperta, dove ci sia posto per tutte le persone di buona volontà ecologica”.
Ma la stessa scuola si avvita sempre più in modo regressivo, in cui a dominare sono la competizione e il cosiddetto merito, senza che si mettano minimamente in discussione i contenuti e il fine dell’insegnamento e della formazione. Il problema è che viviamo in un mondo interconnesso, nel quale ogni cosa è collegata con tutte le altre; nelle scuole, invece, si recidono le connessioni, e prevale ancora il vecchio riduzionismo di provenienza cartesiana, secondo cui il mondo è una gigantesca macchina formata da pezzi indipendenti l’uno dall’altro.