Torna con regolarità la proposta di Matteo Salvini di riattivare la leva obbligatoria, sospesa (non abolita) quasi vent’anni fa. Il punto è che questa estate appiccicosa è anche una stagione elettorale – e promesse o intenzioni pesano più delle solite dichiarazioni di bandiera. L’idea sembra diretta a una certa fascia, quella borghese medio-piccola, in età da figli adolescenti, con lo spauracchio delle cattive compagnie. Ma c’è qualcosa di serio nel ritornello della “naja”, con cui ogni tanto si cercano consensi?
Il sistema costituzionale resta ancorato a una cittadinanza che comprende la partecipazione alle armi, com’è proprio dello Stato moderno, soprattutto dopo la Rivoluzione francese e le campagne napoleoniche. Ma c’è da dubitare che la Lega e i gestori della sua macchina pubblicitaria si ispirino alla storia, fitta di dispettose complicazioni. A proposito di propagandisti, il più famoso tra quelli della Lega fu sorpreso in frequentazioni di palestrati rumeni, a pagamento, col sospetto di qualche accessorio chimico. Una storia che non starebbe bene fra gli esempi edificanti da offrire ai giovani.
Sul modello di reclutamento, nessun partito offre più di qualche slogan. Quando si parla di forze armate ci si nasconde dietro luoghi comuni, si delegano le scelte e scattano timori. Uno è quello di offendere alleati potenti, l’altro è quello di urtare affari che attraversano l’imprenditoria privata e quella di Stato. Sono affari su cui pesa un ceto manageriale furbo, senza progetti diversi da quelli dei suoi interessi. Un ambiente su cui è meglio poter contare e in cui, al bisogno, si mette qualche amico fidato, con crediti da ricompensare. Ma la questione della leva ha aspetti delicati.
Con la specializzazione dell’apparato bellico, si è ridimensionata la forza del numero ed è stata messa in discussione l’importanza delle grandi unità campali, quelle con armamento individuale diffuso ma limitato, caratterizzate da personale intercambiabile, addestramento formale e poca tecnologia. Però nulla autorizza a credere impossibile il ritorno a modelli tradizionali, più vicini alle orrende macellerie novecentesche.
Dopo una generazione dalla sospensione della leva, in Italia c’è una quantità considerevole di persone che vanno a scuola, studiano, lavorano, ma non hanno la cittadinanza. Al momento sono escluse anche dal servizio volontario e dalla carriera militare. Che fare? La leva per i cittadini vorrebbe dire lasciarle a casa, mentre i cittadini partono, con effetti di esclusione, quasi di respingimento interno. Si creerebbe una massa bizzarra di renitenti di fatto. Per loro sarebbe un chiassoso “ciaone alle armi” da mettere sui social, per fare invidia a chi dovrebbe mettersi in divisa. La leva per tutti, anche per i non cittadini, quasi sdoppierebbe la cittadinanza facendone un doppione equivoco. Una terza possibilità, il reclutamento volontario restando senza cittadinanza, farebbe ancora peggio. In ogni caso si aprirebbero conflitti. Trascurata e strapazzata da anni, la cittadinanza riemerge e non fa sconti. Su questo la destra ha gravi responsabilità.
È aperta la questione della giurisdizione dei tribunali militari. L’anno scorso e quest’anno hanno lavorato due commissioni tecnico-giuridiche di alto profilo: una al ministero della Difesa, che ha approfondito la giustizia militare; l’altra, attivata poco dopo l’inizio del conflitto in Ucraina, al ministero della Giustizia e rivolta più specificamente ai crimini internazionali. Proprio su queste gravi atrocità – e il tema è così scottante –, malgrado il lavoro di accademici illustri, magistrati e funzionari, non è stata formulata una proposta univoca sull’attribuzione della loro cognizione ai tribunali ordinari o a quelli militari, e molti altri aspetti hanno ancora bisogno di approfondimento. Con la riattivazione della leva, tutto questo diventerebbe ancora più complicato.
Non sembra che queste implicazioni siano state esaminate prima di fare sortite in campagna elettorale, ma le dichiarazioni restano, e l’idea di un servizio obbligatorio, magari per raddrizzare la gioventù, sottrarla alla droga e al muretto, farne gente in gamba eccetera, è comunque un oggetto politico.
Di certo il ripudio della guerra e la leva – insieme con lo spirito democratico della Repubblica nell’ordinamento delle forze armate – sono cardini costituzionali coessenziali. Per questo, con la leva tra parentesi e col riaffacciarsi della guerra in Europa, c’è bisogno di prese di posizione serie, non di recite a soggetto. Un progetto di democrazia partecipata, attento al lavoro, ai giovani, alla redistribuzione della ricchezza e all’ambiente, dovrebbe ripensare bene l’argomento, senza la pretesa di soluzioni facili e cercando un ordine del discorso diverso dalle banalità.
La partecipazione del cittadino (e adesso, della cittadina) alle armi della Repubblica è stata disegnata dai costituenti con la mente rivolta a cose oggi sbiadite, a volte imbarazzanti sino all’indicibilità: ci sono dentro la grande guerra e il colonialismo, i moti sindacali e l’interventismo democratico, la repressione badogliana dell’antifascismo fra il 25 luglio e l’8 settembre, Cefalonia e l’affondamento del “Roma”, e prima il volontarismo risorgimentale e l’impresa di Fiume; ma anche i doppiogiochismi degli alti comandi e la vicinanza dei militari alla Resistenza, nei gradi bassi e di complemento; c’è il Corpo italiano di liberazione, c’è la battaglia di Montelungo e c’è il malcontento popolare per il trattato di pace. Elementi contraddittori e difficilmente comprensibili, oggi, in una società vittimista, fiacca, ipersensibile fino all’isteria ma cinica e cronicamente egoista.
Dopo quella stagione costituente, sono arrivate altre cose, che consigliano di leggere le norme sui militari riflettendo meglio: il Sessantotto, la mobilitazione contro il complesso militare-industriale e il pacifismo della società dei consumi, diverso da quello socialista e internazionalista. È indispensabile, comunque, tenere presente che l’arruolamento volontario, specie dopo la crisi a partire dal 2008, è anche una valvola economica; e l’alta tecnologia degli armamenti contribuisce all’inquinamento e alle malattie professionali, con ricadute sociali e giuridiche (l’uranio impoverito è il problema più noto). Queste linee di confronto hanno bisogno di sviluppo e proposte. Altro che parole sul reclutamento buone per le chiacchiere da spiaggia.
La polverizzazione a sinistra – e un quadro di alleanze miope e prigioniero di tatticismi – non lasciano sperare, adesso, in una risposta ragionata. La campagna elettorale del solleone, quando apre bocca, non ruggisce.