Rimane grande la confusione sotto al cielo del centrosinistra, e – a differenza di quanto era portato a credere il presidente Mao – la situazione non appare per nulla eccellente. Non era difficile immaginare che l’intesa fra Letta e Calenda, per il modo in cui è maturata e i contenuti che l’hanno caratterizzata, suscitasse un vespaio di polemiche e rivalse. Si tratterebbe di un pasticcio fra un cavallo e un’allodola – dice qualcuno –, in cui però il gusto dominante, incredibilmente, sarebbe quello dell’esile pennuto.
In realtà, la dinamica e gli effetti di quell’intesa, che assegnano ad Azione (con +Europa) il 30% dei seggi dell’intero centrosinistra, ci dice che l’allodola è stata pesata almeno come uno struzzo. E non a caso. In poco più di un anno, il parlamentare europeo eletto nelle liste del Pd – e poi uscito dal partito sbattendo la porta, dopo le intese con i grillini – ha messo in campo un concentrato di opportunismo politico, acrobazia tattica e lucido marketing, che gli ha permesso di bruciare tutti i cantieri aperti di partiti in costruzione, arrivando rapidamente a mettere il tetto al suo edificio politico. Al netto di considerazioni di merito, sarebbe utile capire come questo percorso sia stato possibile, nonostante in questi ultimi trent’anni (diciamo dal disfacimento del Pci) la corsa a costruire partiti sia stata più affollata della maratona di New York.
A sinistra, con Rifondazione comunista, nelle sue diverse versioni e gemmazioni, combinata alternativamente ai verdi o a improvvisate carovane laburiste, e ancora con gli sfrangiamenti del troncone democratico per effetto del ciclone Renzi, ne abbiamo viste di tutti i colori, con esiti che rimangono, nel migliore dei casi, inchiodati alla fatidica soglia del 2%. Lo stesso Renzi, che si è mosso in direzione opposta alla galassia di quelli che “la sera andavano a Botteghe oscure”, si trova paralizzato su quella insignificante cifra elettorale.
In tutti questi casi, la metodologia è apparsa sempre la stessa: si fraziona il gruppo parlamentare per assicurarsi, comunque, visibilità e risorse; si raccoglie qualche scampolo di apparato, sindacale o di associazionismo sociale, e si lancia l’appello alle origini: dobbiamo fare quello che gli altri non fanno più, era il solito refrain, ossia tornare alla base popolare del Partito comunista, oppure intercettare il ceto medio moderato, per chi usciva a destra dal Partito democratico. Lungo questi pellegrinaggi, il gruppo iniziale degli scissionisti trovava solitamente il modo di separarsi ulteriormente, moltiplicando sigle e simboli, e dimezzando i consensi, fino ad arrivare alla scissione dell’atomo.
Calenda ha compiuto un’operazione diversa, non so con quanta consapevolezza e premeditazione, ma sicuramente si è trovato trascinato da una corrente che non risaliva dall’estuario alla fonte del fiume, ma correva invece più velocemente verso il mare aperto. Ricorrendo alle sue matrici di sinistra – anzi, ferreamente comuniste – ha fatto evidentemente virtù delle reminiscenze gramsciane, ricordandosi di alcune avvertenze che il fondatore del Pci ricordava sulla forma partito. In particolare, mi pare che sia questo il vero nucleo portante del calendismo: ha colto quella che è oggi la vera caratteristica della fase politica, che proprio Gramsci, in un suo preveggente quanto largamente ignorato passaggio dei Quaderni, cosi sintetizza: “A un certo punto della loro vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determinati uomini che li costituiscono, li rappresentano e li dirigono non sono più riconosciuti come loro espressione dalla loro classe o frazione di classe. Quando queste crisi si verificano, la situazione immediata diventa delicata e pericolosa, perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all’attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali e carismatici. Come si formano queste situazioni di contrasto tra rappresentanti e rappresentati, che dal terreno dei partiti […] si riflette in tutto l’organismo statale, rafforzando la posizione relativa del potere della burocrazia (civile e militare), dell’alta finanza, della Chiesa e in generale di tutti gli organismi relativamente indipendenti dalle fluttuazioni dell’opinione pubblica? In ogni Paese il processo è diverso, sebbene il contenuto sia lo stesso. E il contenuto è la crisi di egemonia della classe dirigente. […] Si parla di ‘crisi di autorità’ e ciò appunto è la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso”.
Una descrizione che sembra presa direttamente da uno dei tanti sondaggi che pubblicano i quotidiani, in questa canicolare campagna elettorale: il distacco dai partiti, la contrapposizione fra rappresentati e rappresentanti, l’affiorare del ruolo di governo effettivo di tecnocrazie e lobby burocratiche, e persino religiose. Siamo all’interno di quella crisi di “statualità” che autorizza la destra sovversiva e poujadista a mobilitare rancori e proteste, per dare un colpo fatale a ogni “spazio pubblico” (nell’accezione più cara a Habermas), spingendo il Paese verso una tribalizzazione della governance, affidata a gruppi di accaparramento delle risorse pubbliche, un’alleanza di “no tax-no vax-no pax” che sta dilagando in tutta Europa, e di cui il putinismo è l’amalgama globale.
In questo scenario, lo scontro vero si accende proprio nel cuore della borghesia nazionale, entro cui si contrappongono due grandi schieramenti: da una parte chi pensa di combinare l’assistenzialismo con l’evasione fiscale, il Pnrr con la liberazione da lacci e lacciuoli, tentati di giocare la carta Meloni per arrischiare un nuovo negoziato con l’Europa; e un’altra parte che sta guidando il cosiddetto reverse flow del sistema industriale italiano, in cui i comparti industriali mirano a rovesciare il flusso industriale tradizionale. Arrivando così direttamente sui mercati più maturi, scavalcando la mediazione tedesca e nordeuropea, e chiedendo una guida prestigiosa e riconosciuta che tuteli il “made in Italy” e non le singole aziende.
In questo scontro, Calenda ha trovato il modo di piazzare il proprio marchio, collocandosi esattamente sul crinale più estremo del fronte globalista e atlantico che, anche grazie alla guerra, viene tradotto come partnership con le forze angloamericane più interessate a indebolire la Francia e la Germania, dando spazio all’indotto italiano. In questo modo, rispetto a Renzi, intercetta la radicalizzazione, non più la moderazione, che caratterizza la vecchia “maggioranza silenziosa”, dandole ruoli e funzioni sullo scacchiere internazionale. In pochi mesi, Calenda ha trovato spazio e irrobustito il radicamento del suo movimento, usando le elezioni per il sindaco di Roma come megafono. In quella competizione, significativa è stata la geografia dei voti che ha raccolto: un significativo 20% nella capitale, raggranellato nelle stesse aree di primato del Pd. Sembra che lui abbia raccolto i voti dei figli del cronico elettorato democratico. Rispetto al vecchio ceto borghese e intellettuale, Azione si rivolge alle figure di autoimpresa e intraprendenza professionale.
Un partito leninista, verrebbe da dire, quello di Calenda – in cui un ridotto nucleo dirigente parla direttamente a una base sociale estrema, “militarizzata” attorno a identità sociali e interessi materiali. Un partito che – proprio come diceva Lenin –, sedendosi a trattare con il Pd, ha tenuto ben presente la massima per cui “se è necessario unirsi fate accordi allo scopo di raggiungere i fini pratici del movimento, ma non fate commercio dei principi e non fate ‘concessioni’ teoriche”. Una condotta che non mira a preservare la purezza ideologica, ma a tenere aperto il canale di comunicazione con il suo target elettorale, che rappresenta oggi la massa critica che ha trasformato l’allodola in uno struzzo.