Cosa c’era alla base del conflitto tra coloni europei e popoli indigeni, poi definiti anche “prime nazioni”? Il nome di Dio? O uno stile, un sistema di vita? Stiamo parlando di 634 gruppi con cinquanta lingue diverse. Questi popoli risiedevano in terre sconfinate, secondo il loro stile di vita. I nuovi popoli, scoperto il “nuovo mondo”, furono attratti dall’uso delle risorse e della proprietà delle terre. Il primo intreccio tra fede e colonialismo è stato questo: la dizione di “terre di nessuno”, tanto cattolica quanto configgente con il magistero di Paolo III (1537), che riconosceva i diritti dei popoli indigeni, ma non citava il tema della proprietà terriera, solo quello più generico di “possesso dei loro beni”.
Tempo dopo, com’è noto, si crearono le riserve “indiane”, e le scuole, cattoliche e protestanti, furono uno degli strumenti principali per “omologare” questi popoli. La mancata allocazione di risorse, soprattutto per la sanità, fece esplodere tra loro violente epidemie, con una mortalità infantile altissima, diciannove volte superiore alla media nazionale. La spesa statale, per questi bambini, era meno della metà di quella per gli altri bambini. La raccomandazione alle scuole residenziali era di ovviare con il lavoro dei loro ospiti. Ha scritto padre Federico Lombardi sull’ultimo numero di “Civiltà cattolica”: “Le condizioni dei popoli indigeni, fra cui i problemi di disagio ed emarginazione sociale (alcolismo, povertà, situazione sanitaria, livello culturale, criminalità) si rivelavano e si rivelano ancora assai più serie che nel resto della popolazione, obbligando a prendere coscienza delle gravissime conseguenze a lungo termine della distruzione delle culture tradizionali, nelle quali le scuole residenziali avevano avuto un ruolo importante”.
Le scuole residenziali servivano dunque a sottrarre i “cuccioli d’uomo” alla loro cultura, impedendogli di parlare la loro lingua, praticare i loro riti. Assimilarli alla cultura occidentale, definita “canadese”. Gli abusi che i bambini subirono in quelle scuole rientrano in questo più ampio abuso, e così, quando morivano, venivano sepolti senza indicazione del nome, per evitare di avere noie con la famiglia d’origine. Se è vero che la sensibilità del Vaticano a questa piaga non origina con papa Francesco, penso che comunque Francesco abbia capito più intimamente di altri, perché nel suo Paese, l’Argentina, i figli di famiglie “comuniste” venivano sottratti ai nuclei originari e “assimilati” alla cultura accettata dalla giunta golpista di Videla, rescindendo ogni legame tra i neonati o i piccolissimi e i loro genitori, che non sapevano più nulla di quei piccoli, ai quali si cambiava anche il nome.
Il famoso slogan “Dio, patria, famiglia” diviene così più chiaro. E diviene più chiaro anche il discorso che Francesco ha pronunciato, il 27 luglio, appena giunto alla Citadelle de Québec,dopo l’incontro privato con il governatore generale del Canada, Mary May Simon, e con il primo ministro Justin Trudeau, rivolgendosi alle autorità civili, ai rappresentanti delle popolazioni indigene e al corpo diplomatico”. Così scrive il portale vaticano “Vatican news”, sottolineando subito che il papa ha invitato “ad attingere alla sapienza, alla cultura e alla laboriosità dei popoli autoctoni per recuperare un’armoniosa visione del creato e sane relazioni sociali”.
La denuncia, la condanna, la vergogna, l’indignazione, appartengono ormai al consolidato di questo viaggio e al riconoscimento della complicità di tanti cattolici con questo sistema colonialista e assimilazionista. Ma ora si tratta di procedere. Verso cosa? Riassumerei la sua indicazione in una parola: pluralismo. Lui ha detto così: “Se un tempo la mentalità colonialista trascurò la vita concreta della gente, imponendo modelli culturali prestabiliti, anche oggi non mancano colonizzazioni ideologiche che contrastano la realtà dell’esistenza, soffocano il naturale attaccamento ai valori dei popoli, tentando di sradicarne le tradizioni, la storia e i legami religiosi”.
Stiamo ancora alla sintesi proposta dal portale vaticano, che del discorso di Francesco sottolinea la denuncia di “una moda culturale che uniforma, rende tutto uguale, non tollera differenze”, si concentra solo sul presente, “sui bisogni e sui diritti degli individui, trascurando spesso i doveri nei riguardi dei più deboli”. Ossia i poveri, i migranti, gli anziani, gli ammalati, i nascituri, “dimenticati nelle società del benessere” e “scartati nell’indifferenza generale”. Quella di cui parla il papa è la cultura dell’io sovrano, che molti anni fa Pier Paolo Pasolini vide nel genocidio culturale perpetrato dal consumismo ai danni della cultura operaia e contadina. L’io sovrano è parente molto prossimo dell’io consumatore e consumista, cioè di quell’unica cultura che Pasolini vedeva nel consumismo.
L’appello al pluralismo è interno al discorso che Francesco fa da sempre sulla globalizzazione: non sia una globalizzazione piatta, che elimina le differenze rendendo tutti uguali rispetto al centro, ma una globalizzazione poliedrica, che unisce nelle diversità. È il pluralismo culturale, che riconosce che il mondo è tenere insieme i mondi. E infatti, parlando in Canada, ha presentato così il simbolo del Canada, l’albero dell’acero. Stiamo ancora alla sintesi ufficiale del passaggio sugli aceri: “le loro ricche chiome multicolori” ricordano “l’importanza dell’insieme, di portare avanti comunità umane non omologatrici, ma realmente aperte e inclusive. E come ogni foglia è fondamentale per arricchire le fronde, così ogni famiglia, cellula essenziale della società, va valorizzata”. E invece a minacciarla oggi sono “violenza domestica, frenesia lavorativa, mentalità individualistica, carrierismi sfrenati, disoccupazione, solitudine dei giovani”, abbandono dei più fragili. Eppure, nelle famiglie indigene, “già da bambini si impara a riconoscere che cosa è giusto e che cosa sbagliato”, osserva il pontefice, “a dire la verità, a condividere, a correggere i torti, a ricominciare, a rincuorarsi, a riconciliarsi”. Ma è la frase testuale e successiva quella più importante: “Il male sofferto dai popoli indigeni, di cui oggi proviamo profonda vergogna, ci serva oggi da monito, affinché la cura e i diritti della famiglia non vengano messi da parte in nome di eventuali esigenze produttive e interessi individuali”.
Che cos’è dunque questa “famiglia” per Francesco? Anche qui non si può non ricordare Pasolini secondo il quale il potere era cambiato: il potere non era più clerico-fascista, basato cioè sul già citato motto “Dio, patria, famiglia”. Il nuovo potere era consumista. Il vecchio potere che Pasolini definiva clerico-fascista lo vediamo bene nelle scuole residenziali: un Dio, un’altra Patria, un’altra Famiglia. E il nuovo? Il nuovo è quello che emerge nelle ultime parole del papa, che evidenziano la centralità delle esigenze produttive e degli interessi individuali.
La famiglia di cui parla Francesco, allora, non è quella del trittico clerico-fascista, ma quella di cui ha scritto il direttore dell’“Osservatore Romano”, Andrea Monda: “Siamo figli di una storia da custodire. Non siamo individui isolati, non siamo isole, nessuno viene al mondo slegato dagli altri. Le nostre radici, l’amore che ci ha atteso e che abbiamo ricevuto venendo al mondo, gli ambienti familiari in cui siamo cresciuti, fanno parte di una storia unica, che ci ha preceduti e generati. Non l’abbiamo scelta, ma ricevuta in dono; ed è un dono che siamo chiamati a custodire (…), oltre che figli di una storia da custodire siamo artigiani di una storia da costruire (…). I nostri nonni e i nostri anziani hanno desiderato vedere un mondo più giusto, più fraterno e più solidale e hanno lottato per darci un futuro. Ora, tocca a noi non deluderli. Sostenuti da loro, che sono le nostre radici, tocca a noi portare frutto. Siamo noi i rami che devono fiorire e immettere semi nuovi nella storia”.
Il luogo dove questo pluralismo profondo e autenticamente evangelico, e quindi rivoluzionario, di Francesco è stato perfettamente espresso è quel “Documento sulla fratellanza umana” che il papa firmò ad Abu Dhabi il 4 febbraio del 2019: “La libertà è un diritto di ogni persona: ciascuno gode della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione. Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani. Questa Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi. Per questo si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano”. Di questo pluralismo occorre tenere conto, perché se Dio ci ha voluto diversi sarebbe allora contro Dio volerci tutti “assimilati”, in tutti i sensi.