Modificando in parte un antico detto di Ennio Flaiano, si potrebbe dire che la situazione italiana è “grave” e “seria” al tempo stesso. Anzi, si potrebbe aggiungere “tragica”. Pandemia, crisi economica, gap di arretratezze strutturali rispetto ad altri Paesi europei, fanno sempre dell’Italia un caso a parte.
Lo è anche nella forma di governo guidata ora da Mario Draghi. Non c’è altra realtà della Comunità europea dove sia stato necessario affidare la premiership a un “tecnico”, per giunta banchiere di alto profilo, e sia stato necessario un governo di “salvezza nazionale” (parole quest’ultime del presidente Sergio Mattarella”). È stato necessario qui da noi per la fisiologia istituzionale (la debolezza degli esecutivi) e perché fasi emergenziali sono state affrontate solo o nell’immediato dopoguerra o di fonte al terrorismo, o infine di fronte a scadenze economiche (entrata nell’euro, spread e via dicendo). Il civile rapporto maggioranza-opposizione e quello che si chiama “interesse nazionale” non fanno parte della nostra tradizione (fecero eccezione De Gasperi, Nenni, Togliatti e per un periodo Moro, Berlinguer). Basta dare uno sguardo a storia e regole della Gran Bretagna o a quelle della Germania degli ultimi anni di governi di unità nazionale tra popolari e socialdemocratici per rendersi conto delle diversità.
Qui da noi ci si divide tra tifosi di Draghi e suoi detrattori a prescindere. È uno sport troppo facile. Il riflesso istintuale per chi si riconosce nell’area della sinistra è infatti essere “contro” questo governo dove ci sono Lega e Forza Italia per principio e coerenza, pur sapendo che politica e mediazioni nei rapporti di forza sono l’arte del possibile. Soprattutto in una fase come questa, con una inedita pandemia nelle sue dimensioni e con una crisi – come detto da Draghi nel suo discorso alle Camere – che ci obbliga a pensare almeno nella lunghezza d’onda di un quarto di secolo e oltre. La transizione verso la riconversione ecologica e digitale, non c’è dubbio, durerà un bel po’. Se fatta sul serio e a dimensione europea, è un passaggio d’epoca non tanto per dire. Come lo è ripensare un moderno welfare dove il “noi” torni a prevale sui troppi “io” (l’uso dei recovery non è solo la spartizione di una torta, bensì il rimodellamento sociale che può prendere o una via o un’altra). In campo è poi o la riduzione ulteriore della democrazia o forme nuove di partecipazione alla vita collettiva. È in atto uno scontro di tali dimensioni, niente di più e niente di meno. In questo quadro, la sinistra europea (radicale e socialdemocratica) è in ritirata, oltre che in ritardo quasi su tutto, non per colpa esclusiva di dirigenti inadeguati, quanto piuttosto per i cambiamenti sconvolgenti nel lavoro e nell’immaginario dell’età digitale.
Si possono usare gli ultimi due anni di legislatura per provare a fare qualche riforma strutturale delle regole del gioco? Draghi ha parlato di sanità, scuola, imprese decotte, ecologia, Europa come dimensione irreversibile dell’azione politica, fisco progressivo sul modello della Danimarca. Lo ha fatto nei 53 minuti del suo primo discorso di investitura al Senato e nelle repliche. Forse troppo simile a una lezione professorale di buone intenzioni che a un programma dettagliato, pur pieno di riferimenti da riempire, di cose da fare. Dovrebbe essere, tra l’altro, comune interesse del centrosinistra e del centrodestra trovare punti di accordo per “salvare l’Italia” – come direbbe Mattarella – e ridisegnarne i contorni strutturali modernizzandoli. Da pandemia e conseguente tunnel economico (ha ricordato il neopremier a ragione) non si uscirà con un semplice click che riaccende la luce come una bacchetta magica. Occorrono sacrifici, convergenze e intelligenza politica, oltre che una fase di tregua concentrandosi sulle cose possibili.
Può essere che questa impresa si riveli impossibile. Che il testimone da Conte a Draghi sia un errore. Che una fase di lavoro per le riforme sia un vaniloquio illuminista. Che sia meglio scegliere la via della contrapposizione politica e sociale, dell’opposizione. Si tratta di dubbi fondati e legittimi. In questo caso, corre l’obbligo però di proporre una strada diversa per sconfiggere la pandemia e almeno tamponare le arretratezze del caso italiano. L’Aventino – è bene ricordarlo – non ha portato bene alla sinistra in questo nostro Paese. In mancanza di alternative praticabili nell’immediato, è meglio allora criticare, opporsi a Draghi e al suo governo atto per atto, scelta per scelta, riferimento culturale per riferimento culturale non smettendo mai di pungolare come mission che deve fare pure un piccolo giornale non autistico come il nostro.
Lord John Maynard Keynes, che insieme a Federico Caffè è il punto di riferimento intellettuale di Draghi, scrisse che “nel tempo lungo siamo tutti morti”, rispondendo così a chi lo criticava. Il suo obiettivo era intervenire sia su breve sia su lungo periodo rispetto a economia e politica per gestire i cicli recessivi orientando lo sviluppo. Nulla è stato finora inventato di meglio dell’intervento pubblico in economia e dello Stato sociale. Il banco di prova dei prossimi anni è perciò rinnovare da subito l’idea di welfare e quella di critica al moderno capitalismo finanziario della globalizzazione al cui fine è utile un soggetto Europa finalmente politico. A Draghi si può rimproverare tutto, meno di non aver salvato l’Europa al tempo della sua presidenza della Banca centrale europea.