Un sesto posto mondiale per l’Italia (alle spalle di Perù, Brasile, Stati Uniti, Regno Unito e Grecia) non è una medaglia, anche se è molto vicino al podio. Se però la classifica è la poco invidiabile rilevazione del numero dei decessi per Covid-19 ogni centomila abitanti, e la fonte dei numeri è il piuttosto autorevole database della statunitense Johns Hopkins University (qui il link che viene costantemente aggiornato), c’è poco da sventolare il tricolore come nella festosa stagione dei successi sportivi e olimpici vissuta nel 2021. Non è questa la sede per fare un bilancio tecnicamente compiuto dell’esperienza pandemia, e chi scrive non ha la pretesa di averne gli strumenti: ma siccome all’articolo 32 della Costituzione si legge che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, sarebbe lecito attendersi un posto di rilievo alla domanda “cosa è andato storto?”, nel dibattito pubblico che ci deve condurre alle imminenti elezioni politiche. Saremo distratti noi, ma non ci pare che il tema susciti particolare interesse tra i leader politici e i commentatori.
Gli esperti di statistiche dicono, fin dal 2020, che i dati globali sulla pandemia di coronavirus non sono raccolti con un sistema unico e da strutture e istituzioni dotate degli stessi mezzi economici e organizzativi. Anche quelli diffusi dalle istituzioni più autorevoli, quindi, li prendiamo con grande cautela e non come dogmi di fede. Tuttavia, sarebbe un errore cedere alla tentazione di una sorta di complottismo “patriottico” – speculare a quello delle frange più radicali dei cosiddetti gruppi no-vax – per negare l’evidenza che questi dati ci mostrano: cioè che l’Italia è rimasta lontana anni luce dalle migliori performance di Paesi simili per impianto istituzionale democratico, economia industrializzata, welfare pubblico e perfino demografia, con una rilevante presenza di popolazione anziana che certamente ha contribuito ad appesantire il conto delle vittime. L’esempio più noto è quello del Giappone, che nella citata statistica della Johns Hopkins conta meno di un decimo dei morti da Covid ogni centomila abitanti (25,22 contro 282, 62). Con alle spalle le esperienze di altre recenti, pesanti epidemie, il Giappone si è fatto trovare più pronto, con una organizzazione della sanità pubblica forse meno azzoppata dai tagli rispetto alla nostra, e ha adottato un modello di tracciamento a ritroso dei contagi, alla ricerca dei cluster, che parrebbe avere dato maggiori frutti di quello nostrano. Almeno nella prima fase, quella del 2020, l’anno dell’esplosione della pandemia, neppure le letture sottilmente razziste sulle differenze di costumi e la maggiore disciplina degli asiatici giustificavano alcunché: gli italiani nella quasi totalità stupirono gli osservatori per la loro paziente adesione alle drastiche, ancorché talora confuse, misure restrittive varate dal governo.
Il tema, che qui ci permettiamo solo di suggerire a chi immagina di poter risolvere la campagna elettorale agitando semplicemente lo spauracchio di quelli che fino a ieri l’altro (letteralmente) erano alleati o oppositori non troppo intransigenti del governo Draghi, torna di attualità anche per la recente (21 luglio 2022) pubblicazione di un rapporto dell’Istat, realizzato in collaborazione con l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) intitolato “Impatto dell’epidemia Covid-19 sul sistema ospedaliero italiano”.
In pratica, in che misura la pandemia ha impoverito il servizio fornito ai cittadini, fino a che punto ha messo alla corda le strutture e in definitiva danneggiato i cittadini più fragili, i malati? Qualche dato estrapolato dalla corposa sintesi diffusa per gli organi d’informazione: “Nel 2020 si sono registrati circa 6,5 milioni di ricoveri, il 22% in meno rispetto alla media del triennio precedente. La diminuzione, attribuibile principalmente al differimento delle ospedalizzazioni non urgenti, ha riguardato sia il regime ordinario (-20,1%) che il day hospital (-29,4%), con decrementi più accentuati al Sud e nel Nord-ovest. La riduzione dei ricoveri è stata più marcata in corrispondenza della prima ondata pandemica, con tassi di ospedalizzazione in regime ordinario diminuiti del 45% in aprile e del 39% in maggio rispetto alla media degli stessi mesi 2017-2019. Nel corso della seconda ondata pandemica l’impatto sul sistema ospedaliero è stato più contenuto, con riduzioni del 25% in novembre e del 26% in dicembre. Tra le diagnosi a più elevata ospedalizzazione in regime ordinario, sono diminuiti del 29,5% i ricoveri per le malattie del sistema osteomuscolare e tessuto connettivo, del 27,2% quelli per le malattie dell’apparato digerente e del 25,2% per le malattie dell’apparato genito-urinario. I ricoveri per traumatismi (-17,3%), tumori (-14,5%), gravidanza e parto (-11,7%) hanno subito riduzioni più limitate”. Sono dati soddisfacenti? E il fatto che dei ricoverati per Covid-19 nel 2020 “circa il 30% è deceduto in ospedale” si spiega a sufficienza con gli scarsi strumenti terapeutici a suo tempo a disposizione dei sanitari? E cosa vuol dire che l’impatto della pandemia è stato “più forte nei sistemi ospedalieri del Nord-ovest e del Sud”, come scrive l’Istat?
Nel momento di emergenza più grave, nel primo anno della pandemia, quando, in assenza dello strumento pur parziale dei vaccini è parsa a tratti ingovernabile l’ondata del virus, non pochi dubbi aveva suscitato il fatto che il sistema sanitario articolato su base regionale avesse reagito in modo disordinato e diseguale. Oggi, mentre da destra e dal cosiddetto centrosinistra si odono poche voci di dissenso rispetto al traguardo dell’autonomia regionale differenziata, strumento di più che probabile inasprimento delle diseguaglianze sociali fra le diverse aree del Paese, tra le poche tracce che si ravvisano dell’impegno su questi temi del ministro Roberto Speranza, leader di Articolo uno, è quello che riguarda la necessità del superamento dei tetti alla spesa farmaceutica ospedaliera.
Nel frattempo, dovranno tutte essere riviste le previsioni inserite in autunno da Mario Draghi e dal ministro dell’Economia, Daniele Franco, nella “Nota di aggiornamento” al Def: già oggetto di polemica fra chi contestava la previsione di nuovi tagli alla spesa sanitaria e chi sosteneva che al netto della crescita attesa del Pil e della bassa inflazione reale, la riduzione percentuale in realtà nascondeva un leggero incremento di spesa. Ma con la guerra e le sanzioni alla Russia – che stanno abbattendo le stime sulla crescita economica e con l’esplosione dell’inflazione, che trasforma in carta straccia le previsioni di spesa sanitaria – il rischio di un nuovo shock sul sistema sanitario nazionale (e quindi di un nuovo tradimento delle attese e dei bisogni dei cittadini) si fa concreto. Nessuno qui vuole sminuire l’importanza capitale dei giochi delle alleanze, delle liste elettorali o dei roboanti proclami dei leader. Ma non sarebbe male, magari, se qualcuno prima o poi si preoccupasse di spiegare all’elettorato di che morte (e qui, visto il tema, non si parla solo metaforicamente, purtroppo) dovrà morire.