Era uno degli esiti possibili, quello visto ieri in Senato, con l’apertura di una via che porta dritto alle elezioni anticipate in autunno. Potrebbe essere definito lo sbocco di una concorrenza inter-populistica: i 5 Stelle di Conte hanno fatto la prima mossa, desiderosi di riacciuffare un po’ del loro elettorato; ma nel varco sono entrati di slancio i leghisti, seguiti dai forzitalioti, ansiosi di non lasciarsi risucchiare tutti i voti di protesta dalla destra di opposizione di Fratelli d’Italia. Tanto peggio per il “draghismo di governo”, che prospera, come si sa, da una parte e dall’altra degli schieramenti politici.
E Draghi, lui, come si è comportato? Non ha fatto sconti e non ha assunto atteggiamenti concilianti. Ha bacchettato chi, secondo lui, andava bacchettato – principalmente i 5 Stelle, ma senza trascurare quello che può essere detto il “poujadismo” della destra, sempre pronta a dare spazio, alla rinfusa, a qualsiasi protesta –, mostrando, una volta di più, la caratteristica probabilmente più saliente dell’uomo: una certa rigidità, che può essere un bene o un male, a seconda delle circostanze. In questo caso, per il Paese, è stato meglio o peggio avviarsi verso elezioni anticipate? A noi sembra piuttosto indifferente: nel senso che una fine anticipata della legislatura di alcuni mesi non dovrebbe incidere granché sul risultato finale. Anzi, la caduta “gloriosa” di Draghi, determinata in fin dei conti dalla destra, potrebbe rafforzare il suo partito virtuale, cioè quel centrismo tecnocratico a cui tanti sono affezionati, sottraendo voti proprio alla destra collocatasi in una posizione, complessivamente, troppo estrema.
Il vero problema di questo passaggio è ciò che farà il Pd. Attualmente ci sono sulla carta tre blocchi elettorali: quello delle destre, un altro iper-centrista draghiano in formazione (con i vari Calenda e/o Di Maio) e uno costituito dal “campo largo” di Enrico Letta. Ciò che è avvenuto in parlamento, tuttavia, potrebbe corroborare nel Pd la tendenza interna iper-centrista (rappresentata soprattutto dai renziani rimasti nel partito), e spingere a isolare i 5 Stelle, alleandosi con quelli ancora più al centro. Sarebbe una scelta sbagliata. Sebbene i 5 Stelle di Conte siano, allo stato dei fatti, una formazione che non è né carne né pesce, un po’ ancora populistica e un po’ non più, rompere con loro significherebbe rinunciare a presidiare la coalizione elettorale sul versante del voto di protesta: lasciando così alla destra mano libera nel prendere i voti dei “non draghiani” (per tacere dell’astensionismo, che solo i 5 Stelle potrebbero ancora, sia pure sempre meno, contenere).
Il “campo largo” andrebbe confermato – soprattutto pensando a che cosa possa significare una presentazione delle liste contiane da sole, per quanto riguarda i collegi uninominali, in molti dei quali si lascerebbe passare la destra quasi senza competere. Non va dimenticato, infatti, che la legge elettorale non prevede il voto disgiunto: l’elettore è costretto a scegliere, insieme, il candidato nell’uninominale e una delle liste coalizzate che l’appoggiano.
Sulle previsioni per il dopo elezioni non sarebbe saggio sbilanciarsi troppo. Ma, stando a ciò che si vede, un altro “governo tecnico”, con Draghi o un altro al suo posto, resta ancora la prospettiva più probabile. Il successo dello schieramento di destra potrebbe essere tutto sommato contenuto; e subito dopo si riaprirebbero i giochi al centro, con la sponda offerta dal solito berlusconismo, ritornato “prudente” per l’occasione. È la politica italiana, bellezza! Ma certo, affinché ciò possa accadere, i deputati e i senatori del blocco berlusconiano-leghista-postfascista non dovrebbero avere la maggioranza assoluta. Contro questo esito nefasto risulta determinante, ancora una volta, la centralità elettorale del Pd, che perciò non deve sbagliare a presentarsi.