Nati alla fine dell’Ottocento, sull’onda delle società di mutuo soccorso e delle prime organizzazioni sindacali, i partiti di sinistra, inizialmente prevalentemente socialisti e affiancati successivamente dai comunisti dopo la “grande scissione”, o rappresentavano il mondo del lavoro – sia pure con proprie modalità e diversità di approccio – o non erano. A nessuno dei militanti di questi partiti sarebbe venuto in mente che, nel proprio Dna, potesse esserci una qualche attenzione solidale nei confronti delle imprese. Non che bisognasse per forza demonizzarle – anche se in alcuni casi appariva doveroso farlo –, ma il mondo imprenditoriale era un’altra cosa, il “nemico di classe”. Non c’era alcun bisogno di precisarlo, era così. E questo tratto culturale caratterizzò i partiti di sinistra per un lungo periodo, dall’inizio del secolo scorso fino alla caduta del Muro di Berlino e alla dissoluzione dell’Unione sovietica, passando per il nazifascismo e la Seconda guerra mondiale.
Fino agli anni Ottanta, anche se il pensiero neoliberista aveva cominciato da tempo a farsi strada inquinando la sinistra (vedi il Partito socialista italiano di Bettino Craxi e poi, in Gran Bretagna, i laburisti di Tony Blair), il mondo del lavoro era ancora presente nelle preoccupazioni dei grandi partiti socialdemocratici europei e del Partito comunista italiano. Se ne accorse, sia pure tardivamente, Enrico Berlinguer, quando, dopo la sconfitta del compromesso storico, si recò ai cancelli della Fiat, il 26 settembre 1980, a sostenere la battaglia, purtroppo persa, degli operai contro la grande industria automobilistica torinese, che aveva deciso di licenziare migliaia e migliaia di lavoratori.
Quelle immagini sono l’ultima testimonianza di un grande partito della sinistra che ponga, quella intorno al lavoro, come priorità tra le proprie battaglie politiche. Stava finendo un’epoca, e da allora non si è più vista all’orizzonte l’ipotesi che il lavoro – divenuto via via un mondo sempre più frastagliato e difficile da rappresentare – potesse tornare a essere una priorità, insieme con i nuovi temi dei diritti civili e della questione ecologica. Non lo è stato per i vari eredi del Pci: il Partito democratico della sinistra di Achille Occhetto, i Democratici di sinistra di Massimo D’Alema, e infine il Partito democratico di Walter Veltroni, il quale, dopo aver militato fin da giovanissimo in un partito legato a Mosca, fu attratto dalle sirene americane.
La dimostrazione dell’interclassismo impadronitosi della sinistra italiana fu, se ce n’era bisogno, la decisione di candidare, nelle elezioni del 2008, sia Antonio Boccuzzi, l’unico operaio superstite del rogo delle acciaierie ThyssenKrupp, sia l’imprenditore Massimo Calearo, non esattamente un Adriano Olivetti del Ventunesimo secolo. Alla tendenza che ha caratterizzato un po’ tutti i grandi partiti socialisti europei, non si sottrassero, dunque, gli eredi del Pci. Il perché di questa dinamica lo spiega bene Marco Revelli, docente di Scienze politiche presso l’Università del Piemonte orientale: “Può sembrare un paradosso – sostiene il professore – per il Paese che ha avuto il più forte partito comunista del continente. Ma forse i due fatti sono legati. La sinistra non ha saputo riempire quel cratere lasciato dal Pci, e man mano che cambiava nome, dal Pds fino al Pd, dava l’impressione di essere in fuga da se stessa, in un percorso costellato di abiure” che diede, nel principale partito progressista italiano, sempre più spazio alla componente cattolica ed ex democristiana (vedi Enrico Letta), mentre gli ex comunisti sono stati, o si sono, sempre più messi ai margini.
Un’ulteriore dimostrazione del fatto che nel Pd vige la filosofia del dare “un colpo al cerchio e uno alla botte” è stata la nomina dei due vicesegretari scelti da Letta. Se, da un lato, Giuseppe Provenzano, rappresentante dell’ala sinistra del partito, considera fondamentale “ritrovare il voto degli operai”, dall’altro, la liberista Irene Tinagli dichiarò che “qualora avessi incontrato un operaio non avrei saputo che cosa dirgli”, e che la sua priorità era studiare.
Maurizio Landini, segretario generale della Cgil e prima della Fiom, da tempo ne ha abbastanza di questo andazzo. Già nel 2010, quando era ancora alla testa dei metalmeccanici, lanciò un appello ai partiti di sinistra affinché si preoccupassero di “rappresentare il mondo del lavoro” dimenticato dai più. “Il lavoro – scrisse in un appello firmato da politici e sindacalisti – è l’architrave della nostra Costituzione: il diritto al lavoro, i diritti sul lavoro, le condizioni materiali della prestazione, la parità uomo donna nel e col lavoro, il ruolo dei soggetti della rappresentanza, la libertà delle organizzazioni sindacali, il diritto di sciopero come diritto di libertà individuale innervano tutta la Carta costituzionale”. Da allora, di fatto, non è successo nulla; e la nascita del governo Draghi, sostenuto dal Pd e da Articolo uno, il partitino di Speranza e Bersani, non è stata esattamente propedeutica a una rinnovata attenzione al mondo del lavoro da parte delle forze che si dicono progressiste. Per il leader sindacale la pazienza è finita. Già due anni fa, nel corso di una festa dell’“Unità”, richiamò la sinistra “a rappresentare il mondo del lavoro”. E il 10 luglio scorso, a una riunione con i leader del centrosinistra – sintetizzando, da Italia viva a Rifondazione comunista –, ha ribadito che la politica si è dimenticata, e da tempo, del mondo del lavoro.
“Non faccio un partito – precisa Landini –, sarebbe come dichiarare la fine della Cgil”. Ma – ha aggiunto il sindacalista – “sfiderò la destra”. Come dire, resto a Corso d’Italia, ma, visto che la sinistra non ha alcuna intenzione di fare da sponda politica alle battaglie sindacali, sarà il sindacato stesso a sostituirsi ai partiti. I quali, salvo miracoli arrivati dall’alto, non hanno nessuna intenzione di cambiare direzione. Il loro, anche ammesso che ci sia, è solo un blablabla (per parafrasare Greta Thunberg, quando si riferisce all’impegno dei grandi della terra sul clima). E dobbiamo aggiungere un’altra cosa. Dare voce ai lavoratori significa sostenere le loro battaglie: dunque, per non girarci intorno, ritirare fuori dalla cantina il concetto di “lotta di classe”, sfidando chi, solo ad ascoltare queste parole, teme il ritorno del bolscevismo. In realtà, una battaglia per il potere, perché di questo si tratta, non si è mai fermata. Basta leggere quello che ha dichiarato Warren Buffett, terzo uomo più ricco del mondo, con un patrimonio stimato di 72,7 miliardi di dollari: “La lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi”. Qualcuno dovrà pur cominciare a invertire questa tendenza, che ha trasformato il lavoro, in alcune situazioni, in una sorta di schiavismo neanche tanto velato. Di fronte a questo dramma, ascoltare Landini ci sembra, appunto, il minimo sindacale.