I numerosi esercizi di presentazione dell’ormai imminente viaggio di Joe Biden in Medio Oriente raramente tengono conto dell’ultima notizia che riguarda quel mondo. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, a tempo ormai scaduto, non è riuscito a tenere in vita i corridoi umanitari che, per via terrestre, portano nell’estremo nord-ovest della Siria gli aiuti indispensabili alla sopravvivenza di 2,4 milioni di siriani, lì deportati dall’esercito siriano che non gradiva quella popolazione nelle aree riconquistate. La Russia ha opposto il veto, sostenendo – in piena coerenza con quanto prevede la Carta delle Nazioni Unite – che gli aiuti alle popolazioni stremate e bombardate nel nord della Siria devono passare dalla capitale siriana, Damasco, e non devono giungere via terra dai Paesi con quelle zone confinanti (Turchia e Iraq). Siccome la cooperazione internazionale e l’aiuto umanitario in sede Onu avvengono tra Stati, le regole dell’Onu – come sostiene giustamente Mosca – prevedono che chi sia deportato da un governo debba essere aiutato da chi lo deporta. È uno dei più evidenti paradossi di un sistema che non contempla le persecuzioni interne. La deroga, sin qui imposta dal pudore, sembra dunque finita.
Le stesse cronache danno analogamente poco risalto alla situazione determinatasi nei territori del nord-est della Siria, dove la famosa “coalizione anti-Isis”, guidata dagli Stati Uniti (visto che i russi, a quell’epoca, non avevano tempo da dedicare alla lotta contro l’Isis), sembra avere scaricato i curdi che avevano assunto il controllo di quei territori, con il sostegno della coalizione, a tutto vantaggio di Erdogan e della sua “operazione militare speciale” – mai chiamarla guerra! – tesa a creare una fascia di trenta chilometri sotto controllo turco. Lì, sostenuto dalle opposizioni laiche che lo sfidano in vista delle imminenti elezioni presidenziali, Erdogan intende deportare quanti più rifugiati siriani gli sia possibile, per alleggerire il peso che esercitano, più che sull’agonizzante economia turca, sulla sua opinione pubblica, ormai divenuta xenofoba per via del disastro che i mercanti di paure attribuiscono ai rifugiati, e non alla folle politica economica dello stesso Erdogan.
Tutto ciò mostra bene come l’agenda odierna sia determinata soprattutto dagli influssi della guerra in Ucraina. Questi sono oggettivi – e chiari – sulla grande partita che si gioca in queste ore: esiste ancora la prospettiva di intesa sul nucleare con l’Iran?
Più che l’intesa in sé, sono le sue possibili derivate a rendere evidente l’influsso del conflitto ucraino. Se prima Teheran temeva che un accordo potesse essere di nuovo cancellato da un ritorno di Trump o di un trumpista alla Casa Bianca, ora teme che il protrarsi della guerra, con una sconfitta di Biden, possa influenzare un Congresso americano capace di bocciare l’accordo addirittura nel secondo periodo del mandato di Biden. Per evitare un simile scenario, il presidente americano ha dovuto rinunciare alla linea dura nei confronti di Bin Salman, il nemico numero uno degli iraniani. Si è rifiutato anche di parlargli, da quando è stato eletto, e ora deve fare di Riad addirittura la sua Canossa, inserendo una tappa saudita proprio per incontrare di persona Bin Salman – il mandante del delitto Khashoggi – che Biden aveva definito un paria. Ma evidentemente non è più così. Perché il rubinetto del petrolio saudita è fondamentale per regolare i mercati, e un aumento di produzione capace di non far salire i prezzi o addirittura abbassarli è possibile solo se lo vuole Bin Salman. Il prezzo del petrolio sta a cuore anche a chi detesta Bin Salman, e, nonostante il modo in cui si comporta con i dissidenti, la mossa di Biden è apparsa obbligata. Ma non avrebbe potuto esserci senza una crescita di peso e prospettiva della cosiddetta Nato-mediorientale, l’alleanza tra arabi e Israele, preoccupati entrambi dall’espansionismo iraniano.
Anche questa alleanza, che sviluppa la visione di Trump sugli accordi di Abramo, ha preso piede per l’esitazione di Teheran a sottoscrivere gli accordi sul nucleare, in assenza di garanzie sulla loro durata. Un’esitazione che però non soddisfa l’opinione pubblica iraniana, in autentica rivolta da settimane (vedi qui) contro il regime, per la sua feroce repressione del dissenso, e per la crisi economica senza precedenti che ha determinato un’inflazione mensile a doppia cifra.
Le sanzioni americane c’erano anche prima, non sono solo quelle a determinare l’inflazione che ha messo sul lastrico milioni di iraniani. Piuttosto, c’è la scelta del governo di non drogare più il tasso di cambio con cui vengono fatti i conti in dollari. E l’incastro dei giocatori, che tengono tutte le loro carte in mano fino all’ultimo, si riflette anche sull’Iraq, da un anno incapace di formare il nuovo governo, nonostante la netta vittoria del fronte contrario all’influenza diretta iraniana, e in Libano, dove gli alleati di Teheran, pur avendo perso la maggioranza, sono sempre al potere, paralizzando un Paese in cui la valuta locale non ha più alcun valore.
Così, nell’avvicinarsi della visita di Biden, il Medio Oriente sembra orientarsi verso un contenimento dei prezzi del petrolio e una destabilizzazione delle piazze. Siria, Yemen, Libano, Iraq, sono tutti Stati falliti, e forse lo stesso Egitto del megalomane al-Sisi ormai lo è, considerato l’enorme numero dei suoi abitanti.
Il consigliere della sicurezza nazionale americano ha dato l’allarme in queste ore, rendendo noto che Teheran si appresterebbe a vendere a Mosca droni militari da usare in Ucraina, voce che appare più che plausibile. Il fatto che Teheran abbia speso mesi a tentare di ottenere, in cambio della firma dell’accordo sul nucleare, l’impossibile eliminazione dei pasdaran dai soggetti definiti terroristi conferma che, anche loro, hanno dubbi sull’opportunità di firmare. Davanti a un Paese che definisce il regime “un nemico del popolo”, la possibilità di indicare il nemico all’estero e non in patria può essere una tentazione, anche per l’incertezza sulla durata degli impegni internazionali: senza tempi lunghi, la rimozione delle sanzioni internazionali bloccherebbe certamente la corsa inflazionistica, ma obbligherebbe Teheran a ricostruire il suo apparato industriale, sempre più controllato dai pasdaran.
Non tutto è detto, comunque: i negoziati sono in corso da settimane – tramite Qatar e Oman –, ed è possibile che il viaggio di Biden riesca a evitare gravi strappi. Ma al di là della tregua yemenita, nulla sembra segnalare che quanto dicono iraniani, siriani, iracheni, libanesi, e le popolazioni dei Paesi arabi del Golfo, sia tenuto in considerazione. Se poi ciò sia prioritariamente conseguenza della guerra in Ucraina, o dei tradimenti delle “primavere arabe”, sarebbe materia di discussione.