L’11 luglio dello scorso anno migliaia di cubani scendevano in piazza in diverse province del Paese al grido di “libertà” e “abbasso la dittatura”, chiedendo riforme sociali ed economiche, durante quella che è diventata la più grande espressione di dissenso contro il governo dalla vittoria della rivoluzione. Di fronte alle proteste, il presidente Miguel Díaz-Canel chiamava i sostenitori del governo a scendere in strada per affrontare i manifestanti. Subito dopo, circolarono molti video in cui militari e agenti in abiti civili colpivano i dimostranti, nonostante la stessa Costituzione cubana riconosca il diritto a manifestare. Tutto ciò accadeva in uno dei momenti peggiori per il Paese, colpito dalla pandemia, con gli ospedali al collasso e in una situazione di penuria di alimenti, medicinali e di tutti i prodotti di prima necessità, con la risorsa economica più importante per l’isola, il turismo, paralizzata.
Nonostante le proteste siano state di breve durata, i tribunali cubani hanno condannato centinaia di persone al carcere, con accuse che vanno dal disordine pubblico alla sedizione, cosicché gli attivisti sono stati costretti a denunciare le violazioni dei diritti. Altri dissidenti sono fuggiti dall’isola, alimentando un esodo che, secondo i funzionari statunitensi, quest’anno dovrebbe fare arrivare negli Stati Uniti circa centocinquantamila persone. Non più come balseros, ma a piedi e con l’aiuto del Nicaragua che, alla fine dello scorso anno, ha eliminato l’obbligo del visto per i cubani, dando loro un punto di appoggio in Centro America per viaggiare via terra, attraverso il Messico, fino agli Stati Uniti. In tal modo – sostiene Bert Hoffmann, esperto di America latina – lo scontento ha lasciato in larga misura il Paese.
Due giorni fa, in vista dell’anniversario, “Granma”, organo ufficiale del comitato centrale del Partito comunista, ha riportato un intervento che Díaz-Canel ha pronunciato durante un incontro con artisti e scrittori cubani, nel quale il capo dello Stato ha ricordato che ciò che si festeggerà l’11 luglio sarà lo “smantellamento di un colpo di Stato vandalico”, che ha indotto il governo, dopo la repressione della rivolta, a rafforzare sistematicamente il proprio controllo politico.
Così, forse per una coincidenza, già nell’agosto dello scorso anno, Cuba ha approvato un primo regolamento sulla sicurezza informatica, in cui sono elencati diciassette crimini, tra cui “sovversione sociale”, “alterazione dell’ordine pubblico” e diffusione di notizie false su Internet, nonché il cyberterrorismo. Da parte di molti osservatori, il provvedimento è stato letto come la volontà di introdurre una legge bavaglio per impedire le critiche.
Come ha avuto modo di dichiarare Laritza Diversent – direttrice della Ong Cubalex –, “questa legge ha un obiettivo chiaro, ed è impedire ai cittadini cubani di utilizzare i social network per esprimersi, condividere contenuti e organizzarsi. Quello che è successo con le manifestazioni dell’11 luglio, che sono state spontanee e non sono state organizzate in precedenza sui social network, è che sono riuscite a mobilitare la maggior parte delle persone sull’isola, soprattutto attraverso l’accesso a quelle reti”.
Le grandi manifestazioni dello scorso luglio hanno lasciato un’eredità pesante con 725 persone detenute, stando ai dati di Cubalex, mentre lo scorso 24 giugno il tribunale ha condannato Luis Manuel Otero Alcántara, Maikel Castillo Pérez, Félix Roque Delgado, Juslid Justiz Lazo e Reina Sierra Duvergel, dai nove anni in giù per reati di oltraggio ai simboli del Paese, disprezzo, diffamazione di istituzioni e organizzazioni e di eroi e martiri, attacco, resistenza e pubblico disturbo. Una condanna che ha colpito artisti inermi.
Luis Manuel Otero Alcántara e Maikel Castillo Pérez sono afrocubani, ovvero appartengono a quella parte della popolazione che – a distanza di più di sessant’anni dalla rivoluzione – vive ancora maggiormente l’emarginazione economica e sociale. Otero è scultore e performer. È uno degli animatori del Movimiento San Isidro, creato da artisti, giornalisti e accademici, che ha cominciato la sua attività nel settembre del 2018, in seguito a un decreto del governo che intendeva regolare le attività artistiche e culturali nel Paese. In risposta a questo intervento censorio, varie sono state le proteste. Silvio Rodríguez, uno dei massimi esponenti della Nueva Trova cubana, sempre politicamente impegnato a sinistra, nel 2020 si era espresso “chiaramente e con forza” contro la politica e a favore di Luis Manuel. A fine novembre dello stesso anno, più di trecento persone, per lo più giovani, si erano radunate davanti al ministero della Cultura per manifestare contro lo sgombero forzato dei membri del Movimiento: il che ha fornito al governo il pretesto per interrompere il dialogo che aveva promesso agli artisti, scegliendo la repressione.
Maikel Castillo è un rapper e uno degli interpreti, assieme con altri artisti cubani espatriati, della canzone “Patria y vida”, una risposta al celebre “¡Patria o Muerte! ¡Venceremos!” pronunciato da Fidel Castro nel marzo del 1960, diventato lo slogan di tutta la storia rivoluzionaria cubana. La strofa “Il mio popolo vuole libertà, non più dottrine. Già non gridiamo più ‘patria o morte’ ma ‘patria e vita’” segna il rovesciamento di prospettiva e l’allontanamento delle giovani generazioni dagli ideali della rivoluzione. Sia Luis Manuel sia Maikel hanno espresso, con aria di sfida, la loro resistenza al regime attraverso l’arte. Intanto “Patria y vida” spopola su Youtube, con quasi undici milioni e mezzo di visualizzazioni, ed è diventato l’inno libertario di chi non sopporta più la propaganda del regime. Nel 2021 gli è stato assegnato il Grammy latino come canzone dell’anno, ed è stata la colonna sonora dei manifestanti dello scorso mese di luglio. Qualche giorno fa, i due hanno fatto sapere che non faranno appello alle loro condanne, perché non si presteranno più a quel circo che li ha processati.
Al di là delle prese di posizione ufficiali, che inneggiano alla vittoria del socialismo sul tentativo di colpo di Stato vandalico, emergono a Cuba opinioni più meditate, come nel caso della rivista online “La Joven Cuba”, edita nell’isola, per la quale “le situazioni di emarginazione non sono una scusa per l’uso della violenza della polizia contro alcuni gruppi sociali. Le condizioni di povertà, esclusione e vulnerabilità di alcuni settori dell’isola non possono essere utilizzate come giustificazione per la repressione. È dovere dello Stato risolvere queste situazioni, non con interventi cosmetici o copertura giornalistica edulcorata, ma con azioni concrete che rendano dignità alle persone, rispettino le loro voci ed eliminino le trappole della povertà che stanno peggiorando nel Paese”. Una voce di speranza, mentre, secondo i critici, il governo offre solo tre opzioni: rimanere zitti, lasciare l’isola, andare in carcere.
Se le proteste sono state represse, non per questo sono cessate le interminabili code per i generi alimentari, per il carburante, per i medicinali e i trasporti pubblici. E non sono nemmeno cessati i frequenti blackout della corrente elettrica. La recente decisione di Díaz-Canel di lanciare un programma per migliorare le infrastrutture e restaurare più di mille quartieri poveri del Paese, che cadono letteralmente a pezzi, unito alla minore severità delle sanzioni da parte statunitense per quanto riguarda le rimesse in denaro dall’estero, difficilmente potranno raddrizzare una situazione economica pesante.
Il blocco economico strozza l’economia cubana da sessant’anni. Secondo il rapporto stilato dall’Avana per l’Onu, è costato in totale 148.000 milioni di dollari, da quando è entrato in vigore. Se le sanzioni economiche hanno acuito le difficoltà economiche, Cuba continua a essere molto dipendente da altri Paesi. L’80% del suo cibo proviene dall’estero, e gran parte di questa percentuale proprio dagli Stati Uniti. Gli acquisti di pollo americano, da parte delle autorità cubane, sono diminuiti di quasi il 30% ad aprile di quest’anno, secondo i dati sulle esportazioni da quel Paese del Dipartimento dell’Agricoltura statunitense: il che spiega la carenza di quel tipo di carne, particolarmente richiesta nei mercati dell’isola. Nel mese di maggio, è stato reso pubblico che, nonostante l’embargo e nel mezzo della carenza di cibo che travolge le famiglie cubane, nel primo trimestre del 2022 gli Stati Uniti hanno esportato a Cuba quasi 84.000 tonnellate di carne di pollo per un valore di 74,4 milioni di dollari. Le difficoltà del Venezuela, suo principale finanziatore, hanno contribuito a indebolire complessivamente l’economia cubana, tanto che nel 2020 il Pil è diminuito di oltre il 10%, secondo i dati della Commissione economica per l’America latina e i Caraibi.
Tuttavia, il blocco economico non spiega pienamente la situazione di Cuba, perché essa è fortemente influenzata dalle politiche interne del Paese. L’isola manca di produzioni locali, in particolare di produzione agricola. Poco vale portare a giustificazione la carenza di acqua per le coltivazioni, o di energia per far funzionare i frigoriferi in cui immagazzinare i prodotti freschi, perché nel mondo esistono Paesi che, nonostante le condizioni proibitive, hanno sviluppato economie agricole potenti che li hanno resi autonomi e addirittura capaci di esportare. Infine, le riforme monetarie varate nel 2021 hanno spinto al rialzo i prezzi e aumentato le carenze, a causa della mancanza di liquidità. A distanza di tanti anni dalla rivoluzione, sorge il dubbio che la vera causa della mancata autonomia alimentare, da parte di Cuba, non sia da ricercare nel blocco economico anacronistico da parte degli yanquis – che, una volta tolto, cesserebbe di costituire un alibi per le insufficienze del sistema economico –, ma nella stessa organizzazione del lavoro.
Poiché la difficile situazione economica crea molta insoddisfazione, e la frattura tra la popolazione anziana e le nuove generazioni, alle quali le conquiste della rivoluzione non bastano più, si acuisce, il governo sceglie di serrare le file e di chiudersi nel bunker, in una difesa che rischia di essere semplice autoconservazione. Se da anni Cuba ha cessato di essere un esempio per le sinistre, che hanno rivolto lo sguardo altrove, con l’ondata repressiva messa in atto e – soprattutto – con l’incapacità finora dimostrata di rinnovarsi e di dare risposte alle nuove necessità emergenti a livello sociale, ivi comprese quelle relative alla democrazia, l’isola che a lungo ha incarnato il mito dinamico di una rivoluzione fatta da giovani, chiusa ormai in una sorda senescenza, appare destinata a una lenta e inesorabile fine.