Da tempo in crisi sotto il profilo elettorale, con un vero e proprio crollo dei suffragi, il partito della sinistra radicale tedesca, che ha riscosso nella tornata del settembre scorso solo un risicato 4,9% – pressoché dimezzando i voti rispetto al 2017, e rimanendo al di sotto della soglia del 5% –, appare oggi non solo in rapida ed estrema contrazione, ma anche estremamente diviso al suo interno. Non che il partito sia stato completamente azzerato: esiste infatti un piccolo drappello di 39 deputati eletti con il mandato diretto di circoscrizione, e, nonostante il declino, la Linke è ancora parte di coalizioni di governo in quattro Länder, e ha un presidente di regione, Bodo Ramelow, in Turingia. La celebrazione del quindicesimo anniversario dalla fondazione del partito, che si è tenuta la scorsa settimana a Erfurt, non ha avuto certo toni allegri. Gregor Gysi, uno dei fondatori, nel suo discorso inaugurale avrebbe dovuto fare gli auguri al partito per la ricorrenza, ma ci ha rinunciato, e – in un intervento tanto intelligente quanto spiritoso e diretto – ha detto: “Non c’è niente da festeggiare. Il partito sta attraversando una crisi esistenziale… o lo salviamo, o precipitiamo nella insensatezza”.
I risultati negativi, infatti, non sono solo quelli arrivati dalle recenti elezioni per il cancellierato, ma anche quelli delle varie elezioni regionali che si sono succedute negli ultimi anni. Clamoroso è stato il crollo nella piccola Saarland, in cui, dal 12,8% conseguito nel 2017, si è passati al 2,6% nel 2021; ma anche nelle recenti elezioni dello scorso maggio nello Schleswig-Holstein è stato un disastro: la Linke non è andata oltre il 2%, rimanendo fuori dal parlamento regionale. Personalità importanti come Oskar Lafontaine si sono allontanate dal partito. Colpisce soprattutto la perdita di consensi a Est, lì dove la Linke si era andata consolidando come una sorta di “partito popolare regionale”, dotato di una sua struttura articolata e localmente radicata. Le analisi dei politologi hanno mostrato che ormai il voto al partito a Est è un voto anziano, nostalgico, dato più in base a una vecchia adesione ideologica che per le proposte concretamente avanzate. Cose certo note, ma che, nel contesto attuale, assumono un significato nuovo. Torna alla mente una deputata di Lipsia, con cui ebbi modo di parlare nei giorni delle manifestazioni contro il G8 a Rostock, nel 2007, che mi confessò come il suo successo elettorale era dovuto in buona parte al fatto di presentarsi in pubblico e nei manifesti immancabilmente con il fazzoletto rosso da pioniera della Ddr.
Come sempre avviene in questi casi, le ripercussioni delle batoste elettorali sono state pesanti, e non sono mancati i veleni. Ancora Gysi ha sottolineato il clima arroventato e di “denuncia reciproca” che ha caratterizzato l’ultimo periodo di vita del partito, facendo rilevare che i Grünen, che litigano tra loro altrettanto aspramente, hanno almeno il buon gusto di non farlo platealmente davanti ai media.
Le cause della crisi sono numerose: da un lato, esisteva un dualismo originario, risalente alla fondazione stessa del partito, tra una componente socialdemocratica, sia pure radicale, e una componente anticapitalista e rivoluzionaria. Ricordiamo che la Linke nasce dall’unione tra un Partito del socialismo democratico – la Pds, direttamente erede della Sed, il partito socialista unificato della Ddr – e un insieme di movimenti antiglobalisti e di sindacalismo di base riuniti, insieme con una parte della sinistra socialdemocratica uscita dalla Spd, sotto la sigla Wasg che stava per “Alternativa elettorale per il lavoro e la giustizia sociale”.
Il partito ha giocato a lungo su questa doppia anima che, da una parte, guardava alla gestione del potere e ad alleanze con i verdi e con la Spd, dall’altra, inseguiva i movimenti di contestazione più radicali. “Partito di lotta e di governo” – si potrebbe dire con un vecchio celebre motto, in cui però spesso il governo ha avuto la meglio sulla lotta. Per un quindicennio, dunque, la Linke ha tentato una difficilissima quadratura del cerchio, mescolando con disinvoltura approcci politici pressoché inconciliabili. A lungo è stata due partiti in uno: il primo, riformista e manovriero, si è destreggiato nelle amministrazioni locali con programmi cauti e ha tessuto reti di alleanze a livello nazionale con verdi e socialdemocratici; il secondo è stato presente negli scioperi, nelle lotte e nei movimenti radicali, nelle associazioni dei cittadini, e ha prodotto risoluzioni e documenti nettamente orientati in direzione di un anticapitalismo radicale.
Oggi si assiste a uno scioglimento di questo dualismo originario in una ridda di correnti che spesso sorgono da posizioni personali, e regna un generale disorientamento, dovuto anche al fatto che – nelle emergenze degli ultimi anni, dal Covid alla guerra – raramente il partito è riuscito a prendere posizioni univoche. Così, mentre i suoi rappresentanti partecipavano alle riunioni governative in cui si decidevano le misure anti-pandemia, la base esitava tra l’adeguarsi alle regole imposte o inseguire i santoni dei movimenti no-vax. Peggio ancora per quanto riguarda la guerra, su cui sono emerse enormi divisioni e incertezze sulle posizioni da prendere: mentre la destra del partito sosteneva la Nato e l’invio di armi e militari all’Ucraina, la sinistra parlava di guerra imperialista e difendeva le sue convinzioni anti-Nato e pacifiste. Anche la Zeitenwende, con l’avvio del riarmo tedesco a opera della coalizione “semaforo” e del cancelliere Olaf Scholz, ha scatenato un putiferio e reazioni scomposte. Lo slogan “lavorare sulle contraddizioni”, più volte ripetuto, non sembra per il momento sortire alcun risultato.
Proprio il ministro-presidente della Turingia, Bodo Ramelow, nel suo intervento al “compleanno” del partito, ha insistito sulla necessità di esprimere una volta per tutte un orientamento chiaro, il più possibile unitario, riguardo al conflitto, sostenendo che “è falso e politicamente avventurista dire che la Nato sia da ritenersi corresponsabile dell’attacco all’Ucraina e ai diritti umani in corso”. Per contro, Janine Wissler, rieletta co-presidente con il 57% dei voti, ha dichiarato che “è stato un errore non sciogliere la Nato”, e, pur ribadendo il sostegno al Paese aggredito e ai “coraggiosi che in Russia lottano contro la guerra”, ha rimarcato che “è in corso uno scontro tra grandi potenze, un conflitto imperialista, che non è certo cominciato con la guerra in Ucraina”.
Di fronte a queste visioni antitetiche, alla Linke occorre un cambio di marcia per sopravvivere ed evitare una scissione, che pare sempre più probabile. Un membro di base del partito ha twittato in questi giorni: “La Linke è come una casa abbandonata protetta dalle Belle Arti, che appartiene a un gruppo di eredi che non si mettono d’accordo. Il restauro costa parecchio, e demolire e ricostruire non è possibile, di modo che si può solo rimanere a guardare il suo lento deterioramento, e sperare in un miracolo”.