Buona la prima, godetevela, perché la seconda parte del film di Marco Bellocchio sul caso Moro è assai meno valida. Poco Gifuni, poco Servillo, molta Margherita Buy, peraltro in una strepitosa prova attoriale. Il resto è noia. Forse colpa della “serialità” – sarà trasmesso in autunno a puntate dalla Rai – che rende la visione al cinema un po’ lenta? C’è anche questo aspetto, di sicuro, ma non solo. Ci eravamo lasciati con le immagini che preannunciano la liberazione dell’ostaggio, vi avevamo detto del Piano Viktor, poi espressamente citato nel seguito: era stato realmente predisposto, nel caso le Brigate rosse, appunto, avessero rilasciato Moro. Immaginavamo, dunque, tutt’altro, una galoppata di fantasia che potesse restituirci il senso del tempo e degli avvenimenti, una visione onirica che ci calasse, tuttavia, in quei momenti. Perché c’è molto bisogno di rappresentare quegli eventi, quei personaggi. Invece ci siamo ritrovati davanti alle facce di Valerio Morucci e Adriana Faranda, la bellezza di questa (veramente, ed è ancora molto bella), loro che vogliono trattare, i loro scontri con il “duro” Mario Moretti, la compagna di questi, Barbara Balzerani, in secondo piano – giustamente, avendo un ruolo minore e meno spessore.
Due coppie che si incontrano, litigano, come nella “narrazione” di sempre: i buoni e i cattivi, un paffuto Lanfranco Pace al ristorante, che prova a metterci una buona parola (tutto vero, soprattutto il solito, comodo ristorante dove erano soliti incontrarsi e dove nessuno li ha mai intercettati). Poi la prigione, strettissima e angusta: simbolicamente ogni prigione è così, non vogliamo prenderne le misure. Il punto è che quella rappresentazione coincide con un racconto dei fatti risultato poi falso: Moro si trovava in buone condizioni fisiche, non compatibili con una detenzione in condizioni di ristrettezza come quelle raccontate dai brigatisti. Questo è un aspetto importante: il regista ha la massima licenza autoriale, ma perché proprio una scelta che cade su elementi falsi? Si può accettare la totale fantasia, ma che sia fantasia. Invece qui pare che Bellocchio si sia innamorato del racconto di Valerio Morucci e Adriana Faranda, cioè, per intenderci, della storiella proposta dal famoso Memoriale – curiosamente il regista ha avvertito il bisogno di una scena per sottolineare l’assenza in via Fani di Faranda, coinvolta nel primo processo poi sfilata.
Insomma, ci pare che abbia parlato molto con loro o che abbia letto le loro cose, e non abbia fatto altro sforzo se non quello di riprodurre la loro versione dei fatti. Anche questa è una scelta, si dirà. E no. C’è stata una commissione parlamentare che ha smontato completamente quel Memoriale e tutte le sue bugie – e ora che facciamo, torniamo indietro? Le Br buone e quelle cattive, la pretesa di Moretti che scendesse in campo la Dc, la loro chiusura totale a negoziare – falso! E poi quella della Democrazia cristiana – a determinare non un fatale destino ma una morte di Stato.
Il criminologo americano Steve Pieczenick, figura chiave, se ne va via tranquillo il giorno prima del 9 maggio, e, salutando Cossiga, dice “il gioco è fatto, ormai lo liberano”: questa non è licenza artistica, è una falsità. Lui stesso, il criminologo, lo ha scritto in un libro molto noto: era venuto con la missione di far fallire ogni trattativa, quella che le Br volevano fare, una parte della Dc, soprattutto quella che tentò disperatamente di salvare Moro in autonomia, contando su pochi amici fidati. Fallendo. Senza lo scenario internazionale, e senza la cricca della P2, le scelte della Dc sono ridotte a un non senso. Cannibalismo politico che non ci fa capire molto di quel che stava accadendo e di quel che sarà poi. Diremmo di quel che siamo oggi. Anche il sogno di un ostaggio restituito alla famiglia resta sospeso alla ricerca di un significato; e l’unico che si può dargli è quello di un’autocitazione del precedente e non riuscito film di Bellocchio sulla stessa tragedia, Buongiorno notte.
Come dicevamo, una seconda parte non all’altezza della prima.