La nazione arcobaleno, quel Sudafrica nato dopo la fine dell’apartheid, ormai è finita da tempo. Ai colori delle diverse etnie presenti – e di una natura tra le più belle del mondo – si sono sostituite le tinte tristi del fango e dei tetti delle favelas, sinonimo di degrado e di povertà. La patria di Nelson Mandela e Desmond Tutu, scomparso lo scorso dicembre, è diventata, secondo la Banca mondiale, il Paese dove la disuguaglianza è la più alta al mondo. Sui perché di questa deriva drammatica, le risposte sono tante: alle inevitabili ricette economiche liberiste, se ne aggiungono altre legate alla dominazione bianca, oltre alla corruzione penetrata nell’African National Congress, megapartito ben diverso da quello che combatteva contro il razzismo dei bianchi.
Dei sessanta milioni di abitanti il 10 % della popolazione detiene l’80% della ricchezza nazionale, gli stessi dati mondiali secondo cui il 10% possiede il 76% di tutta la ricchezza globale. Con il 47% dei sudafricani, dunque, che vive in condizione di estrema povertà. Una fetta drammaticamente alta della popolazione riscontrabile in maggioranza tra i neri. Insomma, da tempo, all’apartheid politico e razzista se n’è sostituito uno economico. Come dire che la discriminazione razziale, sotto mentite spoglie, è rimasta inalterata. Tra i 164 Paesi esistenti sulla faccia della Terra, il Sudafrica è il più ingiusto. Si va dall’impossibilità di accedere all’istruzione, alla sanità, oltre che ovviamente al lavoro – un sudafricano su tre è disoccupato –, a un sistema fiscale che premia quella percentuale di ricchi a scapito delle classi più disagiate.
Ma ci sono anche altri elementi che hanno contribuito alla realizzazione di questo scenario. Secondo un rapporto della Banca mondiale, c’è “l’eredità del colonialismo e dell’apartheid, radicata nella segregazione razziale e spaziale che continua a rafforzare le disuguaglianze”. E a poco sono valsi quei provvedimenti presi all’indomani della fine del regime razzista, che hanno introdotto leggi che prevedono la partecipazione della popolazione nera nelle imprese del Paese, al fine di favorire la nascita di una classe imprenditoriale proveniente dai settori più poveri della società. Un fallimento, tra i tanti, che ha determinato un “classismo” plasticamente rappresentato dalle diverse condizioni familiari.
Per Efrem Tresoldi, il missionario comboniano tornato recentemente in Sudafrica dopo la direzione di “Nigrizia”, “se uno nasce in un insediamento informale o in una baraccopoli ed è cresciuto da un solo genitore – generalmente la madre – con poche disponibilità economiche, ha meno possibilità di procedere negli studi e accedere al mercato del lavoro, rispetto a chi nasce in una famiglia dove entrambi i genitori sono laureati e possono permettersi di fare studiare i figli nelle migliori scuole private”. Niente ascensore sociale, insomma. E qui arriva l’altra nota dolente riguardante appunto l’istruzione, la cui mancata diffusione tra la popolazione nera rappresenta un altro fallimento strettamente legato appunto alla corruzione dell’Anc.
Secondo il missionario “il governo non ha saputo realizzare un sistema di istruzione pubblica adeguato, né formare insegnanti competenti. Eppure, investimenti per la scuola ce ne sono stati, ma la corruzione endemica e il saccheggio delle risorse, da parte di chi avrebbe dovuto gestire i fondi per rilanciare l’educazione, ha azzerato la possibilità di offrire alle nuove generazioni i mezzi per migliorare le loro condizioni di vita”. Aggiungiamo che l’esecutivo non è stato in grado di garantire neanche quei servizi essenziali come acqua, elettricità e infrastrutture igienico-sanitarie. I bianchi vivono nelle città con tutti i comfort, i neri invece più o meno come durante l’apartheid nelle township. Inoltre, molti vivono lontani dai luoghi in cui vi sono le maggiori opportunità di lavoro, e la mancanza di mezzi di trasporto efficienti, per nulla migliorati in questi trent’anni, non aiuta a risolvere la situazione.
È evidente che questa incapacità dei vari governi che si sono cimentati durante questi decenni – l’ultimo attualmente presieduto dall’ex sindacalista Matamela Cyril Ramaphosa, succeduto a Jacob Zuma nel 2017 –, ha portato inevitabilmente a un forte ridimensionamento dei consensi dei quali fino a poco fa ha goduto il “gigante” politico sudafricano. Zuma stesso è stato arrestato, nel 2021, nell’ambito di un’inchiesta per corruzione. Lo scorso primo novembre, alle elezioni amministrative, per la prima volta, il partito di Nelson Mandela, al potere da ventisette anni, non ha raggiunto la maggioranza dei consensi a livello nazionale, scendendo al 45,6% dei voti rispetto al 53,9% delle precedenti comunali nel 2016, perdendo così il controllo di tre importanti aree metropolitane: quella di Nelson Mandela Bay (che include la città di Gqeberha, nuovo nome di Port Elizabeth), di Tshwane (che comprende la capitale Pretoria) e di Johannesburg, dove aveva già perso alle elezioni del 2016.
In queste aree, l’Anc prende tra il 38,19% e il 42,02%, mantenendo percentuali più alte, intorno al 50%, nella metropoli di Buffalo City. Stessa dinamica per Alleanza democratica (Ad), partito moderato con una leadership bianco-nera, passato dal 24,5% al 21,5. Mentre si affaccia, a sinistra dell’Anc, l’Economic Freedom Fighters di Julius Malema, che ha tra i suoi modelli Fidel Castro e Hugo Chávez. Insomma, una disaffezione ai partiti resa evidente dal fortissimo tasso di astensione, circa il 70% degli aventi diritto al voto.
Per lo storico sindacato sudafricano Cosatu (Congresso dei sindacati sudafricani) “quanto è avvenuto sta a indicare la sfiducia e il disprezzo che molti sudafricani ormai nutrono verso il nostro inefficiente e disonesto sistema politico”. Ma anche l’altro bastione della lotta contro il regime razzista, appunto il sindacato, sta perdendo consensi a favore di altre organizzazioni sindacali quali il Numsa (National Union of Metalworkers of South Africa), vicino alla sinistra radicale, da tempo distante non solo dall’Anc ma anche dal Partito comunista e appunto dal Cosatu. Lo scorso autunno ha indetto uno sciopero per chiedere un aumento dei salari dei lavoratori metalmeccanici dell’8%, colmando dunque un vuoto di rappresentanza del sindacato ufficiale.
Tutto questo avviene – non dimentichiamolo – all’interno di un Paese che fa parte del Brics – Brasile, Russia, Cina, India e, appunto, Sudafrica –, tutti Paesi caratterizzati, fino a pochi anni fa, da una forte crescita, messa in forse ovviamente dalla pandemia, e da abbondanti risorse economiche e naturali. Come riuscirà il Sudafrica a emergere da una situazione così grave, è una domanda da dieci milioni di dollari. Come in altre rivoluzioni, anche questa – messa in atto, a differenza di altre, senza spargimento di sangue e nell’ambito di un sistema democratico – non è stata in grado di garantire la nascita di una nuova classe politica all’altezza della sfida. Quella attuale appare incapace di raccogliere l’eredità dei padri della lotta antirazzista, non più rappresentata da Ramaphosa, la cui candidatura alle elezioni del 2024 è tutt’altro che certa. Il presidente in carica fa parte proprio di quel ceto politico che ha fallito; ma non sappiamo se il grande partito sudafricano sarà in grado di proporre in tempi brevi qualcosa di nuovo.