La maggioranza giallo-rossa era la soluzione più avanzata che il parlamento uscito dalle elezioni del 2018 potesse offrire. Avrebbe dovuto essere adottata fin da subito e durare l’intera legislatura. Soltanto l’inconsistenza di un partito come il Pd – basato sull’elezione a sfondo plebiscitario del proprio leader, un meccanismo che ha prodotto la particolare perversione renziana –, regalando il governo alla Lega, aveva reso possibile l’obbrobrio di una maggioranza, in quel momento dichiaratamente sovranista-populista, tra i 5 Stelle e la Lega. Ma che questi partiti non potessero intendersi, anche perché espressione di realtà territoriali diverse, tra loro profondamente diseguali (la Lega è impiantata al Nord, pur con la “correzione” nazionalista salviniana, mentre la rabbia meridionale si è espressa soprattutto nel voto grillino), era piuttosto evidente; l’errore di Salvini nell’estate del 2019 ha fatto il resto. La nascita del Conte 2 restava comunque appesa all’esigenza di visibilità e sopravvivenza politica di Renzi. Qualcuno aveva creduto che i pretesti messi in campo per colpire il governo giallo-rosso (la questione del Mes, la faccenda del Recovery Plan scritto male nella prima stesura, il nodo della “prescrizione”, e così via) si dissolvessero di fronte alla possibilità di ottenere un ministero in più. Così non è stato, perché Renzi ha ben chiaro che alle prossime elezioni dovrà giocarsi tutto, e che per non morire deve assolutamente fare in modo di ereditare i voti di un moribondo Berlusconi (anche poi presentandosi, se sarà il caso, in un’unica lista con Forza Italia). Il governo tecnico-politico è l’ombrello migliore sotto il quale tessere una tela neocentrista, mentre mettere fuori dalla luce dei riflettori un competitore come Conte, anche lui orientato a prendere voti nello stesso bacino elettorale, neppure era da considerare un obiettivo trascurabile.
Di qui la soluzione Draghi, già evocato come eroe europeo e nazionale in precedenti occasioni, e soprattutto l’uomo giusto al posto giusto quando si tratta di dividere e spendere dei soldi. Però la sua compagine governativa appare nettamente peggiore e più a destra della precedente. E l’affidamento del ministero denominato della Transizione ecologica a un tecnologo, anziché a un ambientalista, non è affatto un segnale promettente. Ci si domanderà un giorno, magari soltanto tra un mese o due, se, contro il parere di Mattarella, non sarebbe stato più saggio per un nuovo centrosinistra ancora in formazione tentare la via delle urne, nonostante tutte le ragioni contrarie a una simile scelta (la necessità di far presto a presentare i programmi per ottenere i fondi europei, la pandemia, l’incombere del “semestre bianco”), anziché imbarcarsi in un’avventura che rischia di ucciderlo in fasce?
Comunque sia, le forze politiche che, insieme, hanno una maggioranza assoluta alla Camera e una relativa al Senato – cioè 5 Stelle, Pd e Leu – avrebbero almeno potuto porre una condizione forte, quella di una delimitazione della maggioranza. Non lo hanno fatto. Con l’argomento specioso che Mattarella aveva rivolto un appello all’intero parlamento, e con un altro solo apparentemente più fondato – quello della divisione della destra e del “recupero” dei sovranisti –, hanno avallato un’operazione in cui il ben radicato regionalismo della Lega, con il volto di Giorgetti, potrà seguitare a fare il suo gioco nazional-populistico con la maschera dell’abbaiatore acchiappavoti Salvini. La doppiezza della Lega attuale è rimasta fuori dal radar. Sono così stati ammessi al tavolo della torta europea, già con tovagliolo al collo e forchetta in mano, i soggetti sociali del blocco borghese del Nord – quelli delle molteplici attività produttive, con la loro ideologia familistico-corporativa che include i lavoratori, purché non immigrati, nel destino dei loro padroni –, quegli stessi che nel corso dei decenni hanno inquinato, evaso volentieri le tasse, delocalizzato, i signori del glocal che hanno importato per primi il virus in Europa con i frequentissimi viaggi d’affari in Cina e altrove, e che lo hanno lasciato diffondere per mesi senz’accorgersene a causa dell’inefficienza cui hanno ridotto, in larga misura, la loro sanità pubblica.
Gongolano i media mainstream e la Confindustria, mentre si lasciano scivolare i 5 Stelle, componente essenziale del nuovo centrosinistra, verso una crisi interna ormai conclamata; e si dà la possibilità alla Lega al tempo stesso di vigilare sulla spartizione della torta e di uscire dal governo quando sarà il momento – come ci sarebbe da scommettere – lamentando che è “troppo a sinistra”, “troppo legato all’élite europea”, così lucrando in termini di consenso. Tutto ciò quando in Europa ci sarà da battagliare perché non si ritorni all’austerità precedente, e quando, probabilmente già nella primavera del 2022, si terranno le elezioni italiane. Un capolavoro di strategia e di tattica, non c’è che dire.
La ripartizione dei fondi europei, il tipo d’investimenti pubblici che dovrà essere messo in campo, non è qualcosa di neutrale o puramente “tecnico”. È una partita che implica un conflitto sociale. L’Italia è un paese dalle forti e storiche diseguaglianze, anche in senso territoriale, come quelle tra il Nord e il Sud. Oggi ci sarebbe l’occasione, a causa di un insieme di circostanze irripetibili, di iniziare a colmare il divario. Equa sarà dunque una divisione della torta che non farà parti eguali, ma quella che, per sanare le diseguaglianze, farà parti diseguali. Chi ha meno deve avere di più: è il principio socialista di qualsiasi distribuzione di beni. Ma ciò implica appunto il dispiegamento di un conflitto sociale, di cui anzitutto i sindacati dovranno essere protagonisti. Stando al suo debole slogan che campeggia nella sede del Nazareno – “dalla parte delle persone” –, si può star sicuri che il Pd, una volta di più, dimostrerà la propria impotenza. “Dalla parte degli ultimi” sarebbe piuttosto lo slogan da adottare. Il che vorrebbe dire organizzare lo scontro dei deboli contro i forti, dei poveri contro i ricchi.